Poche donne? Tutta colpa del “selettorato”
Donne e istituzioni, un binomio assolutamente imperfetto. “È il risultato di vari fattori, culturali e sistemici”, spiega Lorella Cedroni, professoressa di Filosofia Politica all’Università La Sapienza di Roma e autrice, insieme a Marina Calloni della Bicocca di Milano, del Rapporto “Le donne nelle istituzioni rappresentative dell’Italia repubblicana: una ricognizione storica e critica”. L’Italia occupa il 54esimo posto su un campione di 188 Paesi per rappresentanza femminile in Parlamento. E tra i Ventisette dell’Unione europea è addirittura quart’ultima. Andò meglio nel 1994, dopo che entrò in vigore la legge sulle quote rosa, ma con la bocciatura della Consulta nel 1995 la percentuale scese nuovamente sotto il 10 per cento. In 60 anni solo 75 donne hanno ricoperto incarichi di governo. Questi dati sono stati presentati la scorsa settimana alla Camera in occasione della Festa della donna. Ma c’è ancora un dato che assume particolare importanza proprio nei giorni celebrativi dei 150 anni dell’Unità d’Italia: la maggior parte delle senatrici e delle deputate vengono dal Nord. Una discrasia, quest’ultima, figlia tra le altre cose della “diversa socializzazione politica delle donne del Sud e di quelle del Nord, almeno sino alla fine degli anni Ottanta”, chiarisce Lorella Cedroni. E perché sempre meno donne sono in corsa per i ruoli che contano? “I partiti e i loro leaders sono i principali artefici del deficit di rappresentanza femminile, salvo che non si disponga di una rete di conoscenze da portare in dote”. Insomma, il solito meccanismo che si ripete.
Professoressa, la ricerca conferma un quadro di certo non gratificante: le donne nelle istituzioni italiane sono rappresentate troppo esiguamente.
Il trend dipende da vari fattori, culturali e sistemici. I primi derivano dal tipo di socializzazione politica delle donne; i secondi riguardano il tipo di sistema elettorale e il sistema partitico.
In Europa l’Italia è al 24esimo posto, vale a dire nei bassifondi più estremi di questa speciale classifica. Quali sono, invece, i Paesi più virtuosi?
I più virtuosi sono i Paesi scandinavi, caratterizzati da una lunga tradizione di autonomia delle donne grazie al welfare state che ha permesso loro di liberare il tempo da dedicare alla cura e impiegare quel tempo per la formazione, l’autoaffermazione, l’indipendenza. Inoltre anche alcuni correttivi sistemici, come l’introduzione di quote, il sistema elettorale, le liste alternate, hanno favorito l’elezione delle donne nelle istituzioni rappresentative.
Paesi come Ruanda, Monzabico e Pakistan hanno superato l’Italia per presenza femminile nelle istituzioni. Verrebbe da pensare che in questo senso siamo noi il Terzo Mondo…
Ruanda, Monzabico e Pakistan hanno avviato un lento processo di democratizzazione, molto difficile e spesso interrotto da rigurgiti autoritari di cui hanno grande responsabilità i paesi occidentali. Le donne lì sono al potere per vari motivi, culturali, contingenti, storici. Il paragone con l’Italia non funziona, perché si tratta di realtà incommensurabili. Non sono quindi d’accordo con questo tipo di comparazione discriminatoria che mette in luce la presunta inferiorità di questi Paesi rispetto al nostro. Anche l’etichetta “terzo mondo” è arbitraria e funziona solo in senso dispregiativo, dal “nostro” punto di vista. Non c’è un “terzo mondo”, ci sono paesi che lottano per la libertà, la dignità, il valore della vita e questi sono valori a cui tutti aneliamo in qualsiasi parte del mondo.
Proprio in questi giorni è molto dibattuto il tema delle quote rosa (a breve il Senato si esprimerà sul ddl che prevede nei cda delle aziende quotate in borsa o a partecipazione pubblica una presenza femminile pari al 30%, ndr). Inoltre il Global Gender Gap Report colloca l’Italia al 74esimo posto su 134 nazioni in termini di pari opportunità. Le quote rosa sono lo strumento ideale per porre un rimedio? C’è chi non nasconde i propri dubbi sostenendo che possano risultare persino controproducenti…
Credo che le quote siano un correttivo “a tempo” per ristabilizzare gli equilibri in una situazione deficitaria come la nostra. Il merito e la qualità restano però i criteri fondamentali per una migliore democrazia.
Dalla ricerca emerge un altro dato significativo: sono di più le donne del Nord ad occupare i posti in Parlamento che quelle del Mezzogiorno. Anche questo è un aspetto sintomatico dell’atavico divario Nord-Sud che caratterizza l’Italia?
In un certo senso sì, ma ci sono almeno tre motivi che spiegano questo divario: uno è storico, ha a che fare con quanto accaduto nel secondo dopoguerra rispettivamente al Nord e al Sud; l’altro è culturale, dipende dalla diversa socializzazione politica delle donne del Sud e di quelle del Nord, almeno sino alla fine degli anni Ottanta; infine, il terzo è politico e fa riferimento al radicamento dei partiti sul territorio, al livello di coinvolgimento e di posizionamento delle donne all’interno delle strutture di partito.
A proposito di partiti, sono pochissime le donne che occupano ruoli dirigenziali all’interno delle forze politiche. Spesso tale condizione si ripercuote anche sulle candidature.
I partiti e i loro leaders sono i principali artefici del deficit di rappresentanza femminile. I partiti contano ancora molto nella selezione delle candidature, il cosiddetto “selettorato”, e nella gestione delle risorse finanziarie da destinare ai candidati durante le campagne elettorali. Difficilmente si punta su una donna, a meno che quest’ultima non abbia un capitale sociale personale, intendo una rete di conoscenze, nonché una visibilità acquisita in altri ambiti, come in quello del giornalismo o dello spettacolo, più raramente in quello imprenditoriale, da portare come “dote” al partito. È sempre il solito meccanismo che si ripete.
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