Aumentano i giovani neet, né studenti né lavoratori
Li chiamano neet, con un acronimo inglese che indica coloro che non studiano, non lavorano, non si formano, non cercano un’occupazione. In Italia sono circa due milioni, giovani e giovanissimi, spesso donne. Una popolazione in continuo, costante aumento.
Ci sono quelli che hanno una licenza elementare o un diploma di scuola media e si accontentano di piccoli lavori saltuari, spesso mal retribuiti e pagati in nero. Ci sono i diplomati, sfiduciati perché non sono riusciti a trovare un’occupazione stabile. Ci sono i laureati, rassegnati perché troppo avanti con gli anni o con competenze che non soddisfano i nuovi bisogni delle imprese.
Un esercito – cresciuto negli ultimi mesi di oltre 140 mila ragazzi e ragazze – in deficit di futuro e di fiducia, che vive i sintomi di una socialità mancata.
Ma i neet rappresentano solo la punta di un iceberg la cui parte sommersa è costituita, oltre che dai disoccupati ufficiali (coloro che cercano lavoro e non lo trovano), anche dalla massa di sotto-occupati, con un lavoro intermittente e parziale, la cui attività remunerata produce un reddito insufficiente a sostenere qualsiasi prospettiva di autonomia.
A spingere i giovani in un limbo senza apparenti vie d’uscita sono i percorsi formativi lunghi e poco performanti, l’assenza di sistemi di orientamento e di accreditamento sociale, l’affermarsi di percorsi lavorativi prevalentemente discontinui e instabili.
Le cifre fornite dall’Istat sono sconfortanti: in tre anni il tasso di disoccupazione giovanile è cresciuto di oltre quattro punti (oggi è al 25,4%) ed è superiore di quasi 6 punti rispetto alla media europea.
È il sistema lavoro nel suo complesso, però, che mostra i segni di una fragilità e di una sofferenza profonda: mentre cresce il numero degli occupati, cala quello dei lavoratori a tempo indeterminato, diminuisce il numero dei disoccupati ma aumenta la popolazione inattiva in età lavorativa, la disoccupazione tende a cronicizzarsi e chi lavora lo fa con meno garanzie e minori tutele.
Ad aumentare l’instabilità del sistema sono anche le trasformazioni profonde che hanno riguardato l’organizzazione del lavoro e la natura della prestazione: negli ultimi anni è calata la dimensione media delle imprese ed è cresciuto parallelamente il numero dei luoghi dove si lavora; sono aumentate le tipologie di orario di lavoro e sono calate le sincronie legate ai giorni e agli orari di attività; la lista delle professioni si è allungata e si è frazionata, ma le prospettive di carriera legate alle competenze si sono fatte più difficili; i rapporti di lavoro sono diventati meno durevoli, meno uniformi e condizionati da uno sterminato sistema di riferimenti e parametri difficili da inquadrare in un contesto unitario e univoco.
Tutto questo ha portato i giovani a vivere una crescente precarizzazione. Una percezione che corrisponde a un sentimento di ineluttabilità, che spinge i giovani ad appiattirsi in un eterno presente, dove ogni istante equivale all’altro, autonomo, senza intrecci e senza legami.
Alla fine la vita stessa è vissuta come una serie di momenti paralleli che non costituiscono una narrazione e un progetto di vita, perché progettare significa selezionare nel presente ciò che è coerente con le proprie esperienze pregresse e con le attese e gli obiettivi futuri.
Ma il futuro, per i giovani, è nebuloso e carico d’incognite (ed è forse per questo che si cerca rassicurazione nella routine di comportamenti rituali) e la paura nasce dal timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente.
Da queste paure nasce un atteggiamento che appare contraddittorio: da un lato i giovani sono indotti ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall’altro sono spaventati e lo smarrimento li porta a vivere un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni.
Smarrimento che si esprime anche nel progressivo allontanamento dai valori istituzionali originari, dalle radici di memorie comuni e dai patrimoni condivisi della convivenza civile. Un distacco che si colora anche d’insofferenza, quanto più si accompagna a disconoscimenti e incomprensioni da parte delle famiglie e delle istituzioni.
Nei giovani il futuro è una mappa in cui sono tracciate le linee di un’identità possibile ed è, appunto, la precarietà – e la paura che genera – che fa perdere la speranza e la motivazione, trasformandosi nella paura di vivere la vita reale.
Una paura che alimenta il sentimento di sfiducia e di rassegnazione o – al contrario – li spinge a inseguire modelli immaginari e improbabili, dando corpo a quella cultura del risparmio emotivo che sembra caratterizzare le giovani generazioni.
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[…] fenomeno dei “neet”, né studenti né lavoratori, di cui ci siamo ampiamente occupati in precedenti occasioni. […]
[…] la Banca d’Italia nel rapporto Economie regionali. Anche l’istituto di ricerca Tecnè ha studiato in più occasioni il fenomeno dei neet. […]
[…] In altri termini i cosiddetti neet, ovvero coloro che né studiano né lavorano – di cui T-Mag ha scritto più volte nelle ultime settimane – rappresentano, sempre nel 2010, il 22,1%. Che la situazione […]
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[…] statistics sono dati che fanno riferimento al 2010 e che, soprattutto, fanno il paio con altri già analizzati dal nostro giornale relativi ai neet, un acronimo inglese che indica coloro che non studiano, non lavorano, non si […]
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