Le donne e il mercato del lavoro in Italia
Il ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità, Elsa Fornero, ha scritto una lettera al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, per il mancato rispetto delle quote rosa nella sua giunta (Rosella Sensi e Sveva Belviso sono le uniche esponenti). Tra i due è nato un botta e risposta in cui Alemanno, in riferimento alla prima missiva, ha fatto notare al ministro l’identico rapporto di presenza femminile tra esecutivo e giunta capitolina, suggerendo perciò un incontro che getti le basi per una proposta di legge in materia.
La presidente della commissione Affari economici del Parlamento europeo, la liberaldemocratica britannica Sharon Bowles, ha denunciato la totale assenza di donne negli organismi dirigenti della Bce che, a suo dire, starebbe quindi “ignorando nella maniera più evidente” le pari opportunità.
Le quote rosa – per alcuni strumenti necessari, per altri correttivi a tempo – rappresentano da sempre uno dei temi più dibattuti. Soprattutto se, a ben vedere, le mancate pari opportunità si riflettono anche nel mondo del lavoro, oltremodo in Italia che nel resto dell’Unione europea.
I dati dell’Istat segnalano che dal 2008 al 2010 il tasso di attività femminile (15-64 anni) è calato dal 47% al 46,1%. I livelli record di disoccupazione evidenziati in settimana dall’istituto di statistica sono stati resi possibili da un aumento non indifferente della disoccupazione maschile che però non ha visto un eventuale contraltare. Anzi. L’inattività femminile sfiora il 48,9% quando la media europea si attesta al 35,5%. Non solo, in Francia è occupato circa il 60% delle donne mentre in Germania è persino aumentato dal 65 al 66%. Ciò vuol dire che il nostro Paese ha miseramente fallito gli obiettivi posti dalla Strategia di Lisbona, secondo cui entro il 2010 il tasso di attività femminile sarebbe dovuto attestarsi al 60%.
Anche in questo caso, molto è dipeso dal ritardo culturale e strutturale che ha impedito all’Italia di sviluppare politiche sociali in grado di coniugare la vita lavorativa agli impegni familiari delle donne. Le quali, infatti, lavorano in media un’ora e mezzo in più degli uomini.
“Per questo motivo – nota l’Eurispes nel suo Rapporto Italia 2012 di recente pubblicazione –, dopo due anni di blocco, è tornata in vigore la norma che permette alle aziende di ottenere risorse a fondo perduto per attuare sperimentazioni che favoriscano la conciliazione della famiglia con il lavoro, con uno stanziamento, nel 2011, di 15 milioni di euro attraverso la riapertura di un bando per la candidatura di progetti a valere sull’articolo 9 della legge 53/2000”. Anche se, fa notare l’istituto di ricerca, “già nel suo precedente periodo di funzionamento, ovvero dal 2000 al 2008, la norma aveva evidenziato, però, alcune criticità: la complessità della procedura che la rendeva difficilmente utilizzabile da parte delle piccole e medie imprese (le più numerose nel nostro Paese); i tempi di risposta, incerti e a volte prolungati, che non consentivano una pronta risposta alle esigenze mutevoli dei destinatari degli interventi; le modalità di erogazione del contributo (25% all’avvio del progetto e tutto il restante 75% alla validazione del consuntivo) che penalizzavano troppo troppo le piccole realtà che non erano in grado di anticipare a lungo il 75% dei costi; l’impossibilità di contare su linee guida precise, puntuali e certamente interpretabili”. In otto anni sarebbero 683 le imprese che hanno usufruito dei finanziamenti.
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