Usa 2016. L’ambizione di un’America post-razziale | T-Mag | il magazine di Tecnè

Usa 2016. L’ambizione di un’America post-razziale

La questione razziale irrompe nella campagna elettorale. Breve storia dalle proteste di Los Angeles a Black Lives Matter
di Fabio Germani

dallas_obamaA un certo punto – era il 2008 – John McCain tentò di stravolgere la questione razziale a proprio vantaggio. Il pretesto gli fu servito su un vassoio d’argento. Il reverendo Jeremiah Wright, pastore della Trinity United Church Of Christ di Chicago dal 1972, poco tempo prima aveva tenuto un sermone tutt’altro che ortodosso: “Tutti dicono ‘Dio benedica l’America’, ma io dico no no no, Dio maledica l’America!”. McCain ci fece uno spot e Obama dovette prendere le distanze dal suo vecchio mentore. Il reverendo Wright era per lui uno di famiglia: era l’uomo che lo avvicinò alla religione cristiana e che lo convertì quando era un giovane avvocato, lì a Chicago. Wright celebrò il suo matrimonio con Michelle, battezzò le loro figlie e ora era piuttosto attivo nella campagna elettorale del senatore dell’Illinois. Aveva – ha – idee estreme, tipo che gli Stati Uniti siano un paese fondato sulla cospirazione e sul controllo della comunità nera. Una delle tante sue convinzioni era che il governo federale avesse diffuso l’Aids per colpire gli afroamericani. Obama non ebbe alternative, fu obbligato a rompere con lui.

IL PARADOSSO DI OBAMA
Quando Jesse Jackson tentò la scalata alla Casa Bianca nel 1984 e di nuovo nel 1988 tra le file democratiche certo non mancarono riferimenti alla costante condizione deficitaria dei neri. C’era la volontà implicita di sovvertire l’ordine: i discendenti degli schiavi – che un tempo lavoravano nei campi di cotone dei padroni bianchi – erano ormai parte dirimente del processo decisionale. Avrebbero potuto eleggere un presidente, nero, degli Stati Uniti d’America. Uno di loro. C’era, insomma, questo spasmodico richiamo alla diversità – “noi”, “loro” – che lo schiavismo prima, la segregazione razziale e le leggi Jim Crow poi, avevano alimentato negli anni. Quel “noi” e “loro”, per cui paladini e paladine dei diritti civili – da Martin Luther King, lo stesso Jesse Jackson e Al Sharpton a Malcolm X redento dai precetti più estremi della Nation of Islam, fino a Rosa Parks, Fannie Lou Hamer o Bayard Rustin – hanno sacrificato gran parte delle loro vite, si è spesso trasformato in un “noi” contro di “loro”, coinvolgendo talvolta tessuti sociali rimasti esclusi in un primo momento. Le rivolte di Los Angeles nel 1992, dopo il pestaggio di Rodney King da parte di alcuni agenti (evento che diventò emblematico della brutalità poliziesca in quegli anni), vengono oggi ricordate come uno dei momenti più tesi della storia americana recente, ma le proteste a Ferguson nel 2014 o a Dallas nel 2016, non sono vicende da poter trascurare.


Le proteste di Ferguson (2014)

Barack Obama non ha mai voluto presentarsi all’elettorato in modalità “Jesse Jackson”. L’originale, anzi, non lo ha neppure sostenuto con convinzione nel 2008: lo ha criticato in diverse occasioni, ad esempio per non avere aderito ad alcune marce o manifestazioni dal valore simbolico e poco più. Ma Obama non si è mai troppo speso per un’unica parte – pur nella consapevolezza dei divari economici e sociali, che lui stesso ha contrastato da avvocato a Chicago –, piuttosto per una ricucitura del paese. Obama appartiene ad una generazione di leader neri che non fa troppo caso al colore della pelle, bensì alle storie individuali. Nel 1982 Tom Bradley, sindaco nero di Los Angeles, era convinto di poter diventare governatore della California, ma fu sconfitto dal rivale (bianco) repubblicano nonostante i favori dei pronostici. Trentaquattro anni più tardi Obama avrebbe superato il temuto effetto Bradley. La sua amministrazione, però, soprattutto al secondo mandato, è stata caratterizzata dalle proteste della comunità nera, come per la morte di Trayvon Martin nel 2012 o quelle per l’uccisione di Michael Brown nel 2014.
L’anno scorso, per la ricorrenza dei 50 anni dalla marcia di Selma (il 7 marzo 1965 passò alla storia come Bloody Sunday, perché la manifestazione dei 500 guidati da Martin Luther King in Alabama fu repressa nel sangue), Obama affermò: “Sappiamo che la marcia non è ancora conclusa, la corsa non è ancora vinta. Il cambiamento dipende da noi, dalle nostre azioni, da quello che insegniamo ai nostri figli. Con questo sforzo possiamo assicurarci che il nostro sistema giudiziario funzioni per tutti, non per alcuni”. E ancora: “Io rifiuto l’idea che nulla sia cambiato. Quanto è accaduto a Ferguson potrebbe non essere un evento isolato, ma non è più endemico o sancito dalla legge e dai costumi, e prima del Movimento per i diritti civili sicuramente lo era”. I fatti recenti di Dallas (7 luglio) e di Baton Rouge (17 luglio) – cinque poliziotti uccisi dal venticinquenne veterano dell’Afghanistan, Micah Johnson, nel mezzo delle manifestazioni per le morti dei due cittadini afroamericani in Louisiana e in Minnesota; poi altri tre uccisi da Gavin Long, ventinovenne ex marine in Iraq – suggerirebbero oggi una visione meno ottimistica. Il presidente che sognava un paese assolutamente pacificato non si è negato dinanzi al dolore delle persone, se necessario accusando la polizia e attirando da destra rimproveri pretestuosi, tipo l’essere di parte. Ma con gli attacchi mirati alla divisa il presidente è oggi costretto tra due fuochi: “Nulla giustifica la violenza contro le forze dell’ordine. Un attacco alla polizia è un attacco a tutti noi. È lo stato di diritto che rende possibile la società”, ha detto Obama dopo le violenze a Baton Rouge. Per poi ribadire: “È importante che tutti, a prescindere dalla razza, dallo schieramento politico, dalla professione o dal gruppo di cui si fa parte, si focalizzino su parole e azioni che possano unire il paese anziché dividerlo. Abbiamo bisogno di moderare i toni e aprire i nostri cuori”.


Il discorso di Obama a Selma (2015)

LE VITE DEI NERI CONTANO
Il 26 febbraio 2012 a Sanford, Florida, Trayvon Martin, un ragazzo afroamericano di 17 anni, venne ucciso a colpi di pistola da George Zimmerman, un venitinovenne bianco e di sfumate origini latine, vigilante volontario di quartiere. Martin, che non aveva precedenti penali, era appena uscito da un negozio con una bibita in mano. Indossava una felpa con il cappuccio rialzato fin sopra la testa. Tanto bastò per insospettire Zimmerman, il quale gli andò incontro dopo averlo segnalato alla polizia e pedinato con la macchina. Forse una parola di troppo, forse qualche spinta, fatto sta che Martin morì dopo che l’aggressore tirò fuori la pistola. L’anno successivo Zimmerman venne assolto, sostanzialmente sulla base della legge Stand Your Ground del 2005 che giustifica il ricorso alle armi se si teme per la propria incolumità. Fu in quel frangente che, partendo dai social, prese vita l’organizzazione Black Lives Matter (che potremmo tradurre con “le vite dei neri contano”). Gli attivisti di BLM si fecero notare di nuovo nel 2014, dopo la morte di Michael Brown, a Ferguson, vicino St. Louis, Missouri. Il giovane di 18 anni, disarmato, venne ucciso da un agente di polizia il 9 agosto perché convinto avesse rubato in un negozio. Il mese prima era morto Eric Garner, a Staten Island, New York, un uomo che soffriva d’asma, soffocato mentre veniva arrestato per vendita di sigarette di contrabbando. Ancora, nel 2014, Tamir Rice, un dodicenne che in un parco stava maneggiando con troppa disinvoltura la sua pistola giocattolo, venne ucciso a Cleveland, Ohio, dagli agenti accorsi sul posto dopo una chiamata alle forze di polizia perché non assecondò l’ordine di alzare le mani. Dopo Brown, di nuovo nei pressi di St. Louis, un ragazzo di 25 anni, Kajieme Powell, venne ucciso dalla polizia a colpi di arma da fuoco. In seguito un 28enne fece la stessa fine in un palazzo di Brooklyn a causa dell’avventatezza di un agente. Nel 2015 le proteste di Baltimora, durate giorni dopo la morte di Freddie Gray, venticinquenne che perse la vita in stato di fermo. E si arriva ai giorni nostri, con le morti di Alton Sterling, ucciso da un agente di polizia a Baton Rouge (Louisiana) e di Philando Castile, ucciso in Minnesota. In entrambi i casi durante le fasi di controllo ad un posto di blocco.


Le proteste di Baltimora (2015)

UN’AMERICA DIVISA?
Obama si è visto costretto a dover commentare quanto accadeva a Dallas da Varsavia, dove stava partecipando ad un summit internazionale. Non è nemmeno la prima volta che gli capita qualcosa di simile. Il presidente rifiuta l’idea che l’America sia un paese diviso, ma a proposito di eredità, la questione razziale rischia di diventare uno dei principali nodi irrisolti. La gente muore sulle strade, un po’ a causa dell’uso ricorrente di armi, un po’ a causa del pregiudizio – nelle grandi città e in provincia –, retaggio di epoche passate. Nelle ore dei disordini in Texas il noto rapper e produttore di New York, JAY Z, ha rilasciato un brano-denuncia sulla brutalità poliziesca che aveva nel cassetto da un po’, dai tempi dell’uccisione di Michael Brown. Il pezzo, diffuso tramite la sua piattaforma streaming Tidal, è accompagnato ad una nota in cui si legge: “Sono rattristato e deluso in questa America, dovremmo essere più avanti. Non lo siamo”. Il sogno obamiano si è infranto al cospetto dei fatti e oggi un segmento importante della società statunitense è più timorosa e diffidente. Secondo un’indagine del Pew Research Center l’84% degli afroamericani ritiene che la polizia si comporti in maniera ingiusta nei loro confronti e nel 50% dei casi i cittadini bianchi si dicono d’accordo (nel complesso il 58% della popolazione crede che i neri subiscano ingiustizie più dei bianchi). Il presidente americano in verità può fare poco in materia in quanto le forze di polizia sono appannaggio delle governance locali, ancora nel 2016 espressione delle disparità razziali. A Ferguson, per dare l’idea, oltre il 62% degli abitanti nel 2014 risultava essere afroamericano, ma alla stregua di altre piccole città con una simile ripartizione sociale e demografica, soprattutto negli Stati del Sud, la rappresentanza nei consigli municipali o negli organi istituzionali è decisamente minoritaria.

LA QUESTIONE RAZZIALE (NEL 2016)
È stato pubblicato in questi giorni un video a cui partecipano diverse celebrità – tra le quali Beyoncé, Alicia Keys, Rihanna, Chris Rock e Common – che elencano le 23 ragioni per cui sono stati uccisi dalla polizia cittadini afroamericani. La compagna di Philando Castile, l’uomo ucciso in Minnesota, ha trasmesso live su Facebook quanto stava accadendo in quei minuti. La questione razziale nel 2016 è, dunque, una questione anche mediatica, che rimbalza di città in città, di continente in continente. Cosicché a Londra centinaia di persone hanno manifestato contro la brutalità poliziesca. Ma il 2016, per l’America, è soprattutto un anno elettorale. Obama si dice convinto che l’America sia un’unica famiglia (lo ha ribadito a Dallas ai funerali degli agenti uccisi il 7 luglio), ma resta una spaccatura profonda che – suo malgrado – verrà annoverata tra le eredità politiche dell’ultima amministrazione. Programmi come l’estensione della copertura sanitaria o My Brother’s Keeper (il piano di sostegno per i giovani che vivono in condizioni di disagio) non sono riusciti ad arginare appieno le tensioni sociali.


23 Ways You Could Be Killed If You Are Black in America


I rapper The Game e Snoop Dogg in conferenza stampa con le autorità di Los Angeles dopo un corteo volto a favorire il dialogo tra le forze di polizia e la comunità nera

La crisi ha avuto un peso, certo, ma la storia recente insegna che non può essere tutto ridotto ad una mera questione economica. Nel 1998 la scrittrice premio Nobel, Toni Morrison, scrisse sul New Yorker che Bill Clinton poteva essere considerato il primo presidente nero della storia statunitense. Fu una questione di empatia, risalente ad alcuni anni prima, in particolare alle rivolte di Los Angeles. Bush padre – anche all’epoca si era in campagna elettorale – espresse il suo rammarico per la città messa a ferro e fuoco, ma era convinto che per superare quella fase l’iniziativa privata dovesse prevalere: produzione e lavoro, non sostentamento oltre il dovuto. Bill Clinton, che era lo sfidante democratico già governatore del piccolo Arkansas, ebbe un approccio timido – non proclamò niente di così rivoluzionario –, ma al tempo stesso più “umano”. Secondo il regista Spike Lee, molto attivo in materia di diritti civili, il limite di Obama (pur non attribuendo una responsabilità esclusiva al presidente) è stato quello di non essere riuscito a costruire un’America post-razziale. L’interrogativo, ora, è se gli attuali pretendenti alla Casa Bianca – Hillary Clinton e Donald Trump – saranno personalità in grado di raccogliere questo fardello.

@fabiogermani

Le puntate precedenti:
Usa 2016. La questione razziale irrompe nella campagna elettorale
Usa 2016. Le (tante) sfide di Hillary Clinton
Usa 2016. Un socialista a Washington
Usa 2016. La politica estera secondo Donald Trump
Usa 2016. La guerra al terrorismo di Trump e Clinton

 

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