Usa 2016. L’importante ruolo del vicepresidente
Alla Longwood University, in Virginia, c’erano Tim Kaine e Mike Pence uno di fronte all’altro, ma il vero protagonista del dibattito – l’unico – tra candidati vicepresidenti è stato, neanche a dirlo, Donald Trump. Kaine ha recitato per tutto il tempo il ruolo dell’inquisitore, cercando di mettere alle strette il rivale sulle uscite più turbolente del candidato repubblicano, dai giudizi negativi sui messicani agli apprezzamenti per Vladimir Putin. Pence, al contrario, si è limitato ad assorbire i colpi e a motivare le posizioni più scottanti. Alla fine il suo atteggiamento è stato premiato, tanto che un sondaggio Cnn ha assegnato la vittoria a lui (48% a 42%). Si è parlato anche di politica, comunque. Kaine, da bravo cattolico, ha ricordato di essere contrario alla pena di morte; Pence, invece, all’aborto. Al di là delle questioni tirate in ballo, il dibattito del 4 ottobre è riuscito, complice l’ombra di Trump, a restituire centralità mediatica e politica alla figura del vicepresidente. Cosa che, bisogna ammettere, era già riuscita a Joe Biden durante gli anni di amministrazione Obama.
UN PO’ DI STORIA RECENTE
Dare poca importanza alla figura del vicepresidente degli Stati Uniti è errore comune, che potremmo derubricare ad una lettura superficiale della politica Usa. Ovviamente non si può pretendere da un dibattito tra candidati vicepresidenti il medesimo trasporto che si ha quando a confrontarsi sono i due frontrunner, ma questo non vuol dire che non possano rivelarsi sorprese o che le attese non siano altrettanto giustificate. Si prenda il caso del 2008: il dibattito tra il futuro vicepresidente Joe Biden e la candidata di McCain, la controversa Sarah Palin, suscitò interesse – soprattutto – per la curiosità che ruotava attorno all’ex governatrice dell’Alaska, già ex reginetta di bellezza e beniamina del Tea Party. Allo stesso modo appare inutile, in questa sede, stare a ricordare come il vicepresidente degli Stati Uniti rappresenti il primus nella linea di successione, qualora le circostanze rendano necessario l’avvicendamento alla Casa Bianca. Senza scomodare troppo la storia e restando ai casi più recenti, il vicepresidente Lyndon B. Johnson ottenne l’incarico di presidente dopo l’attentato a John F. Kennedy (1963, Dallas). Gerald Ford, invece, divenne presidente il 9 agosto del 1974, subentrando a Richard Nixon, a seguito dello scandalo Watergate. E lo fece neppure passando dal voto, in quanto il vicepresidente eletto, Spiro Theodore Agnew, si dimise nel 1973 per evasione fiscale. Ford fu perciò nominato da Nixon in un successivo momento (in casi simili serve la conferma di entrambi i rami del Congresso), per poi prenderne il posto fino al ’77, sconfitto alle presidenziali del ’76 dal democratico Jimmy Carter.
In generale può capitare che una vicepresidenza sia il volano per una futura candidatura. Il running mate di Ford era Bob Dole, che nel 1996 avrebbe sfidato il presidente uscente Bill Clinton. E Al Gore, vice di Clinton, sfidò nel 2000 George W. Bush, con il quale perse non senza polemiche (a lungo si parlò di brogli elettorali) e non senza strascichi pesanti per il Partito democratico. Di recente – siamo nel 2015 – lo stesso Joe Biden è stato tirato per la giacchetta (in principio con la poco celata benedizione di Obama), un po’ perché molti nel partito ritenevano ormai fiacca la candidatura di Hillary Clinton e un po’ perché si raccontava essere l’ultima volontà di suo figlio Beau, morto per una grave malattia poche settimane prima. Biden, nonostante le voci sempre più insistenti, ha invece declinato l’invito. Anche Paul Ryan, tra le file repubblicane, ha preferito non correre quest’anno per la presidenza (ma c’è chi su chi di lui scommette per il prossimo giro), tuttavia essere il candidato vicepresidente di Romney nel 2012 gli è valso un salto in termini di popolarità non indifferente, suggellato dall’elezione alla carica di speaker della Camera. Oggi è un pilastro del Gop, chiedere a Donald Trump (anche se non lo ammetterà mai).
IL VICEPRESIDENTE DA DICK CHENEY A JOE BIDEN
In un’intervista rilasciata al New York Times in piena campagna elettorale, Hillary Clinton smentì le tensioni spifferate tra la famiglia presidenziale e Al Gore, ribadendo che un’eventuale amministrazione Gore-Lieberman avrebbe rappresentato la staffetta ideale con l’amministrazione Clinton-Gore. Mesi più tardi, dopo la vittoria di Bush, il Washington Post riferì di un confronto serrato tra i due, con Gore che incolpava Clinton di avere condizionato negativamente la campagna elettorale con i suoi scandali a sfondo sessuale e il secondo che criticava il primo per non essere riuscito a convincere l’elettorato sulla base dei traguardi raggiunti dall’amministrazione uscente. Il siparietto è la conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, di quanto il vicepresidente sia un ruolo chiave nella politica statunitense, sia a livello personale (lo step successivo può essere la candidatura alla presidenza, motivo per cui verrà giudicato anche per quanto fatto negli anni di amministrazione), sia in termini di legacy allorché un presidente è prossimo a lasciare la Casa Bianca.
Non è una regola fissa, ma di solito la posizione di vicepresidente viene affidata ad una persona che può indirizzare la porzione di elettorato diffidente dalla propria parte. È una figura, per dirla altrimenti, che deve rassicurare gli indecisi o i delusi. Il running mate di Clinton, Tim Kaine, sarebbe potuto essere il vice di Obama nel 2008, ma alla fine l’allora senatore dell’Illinois scelse Biden perché ritenuto uomo d’esperienza – specie in politica estera –, in grado di rassicurare gli elettori sulle eventuali lacune del giovane pretendente alla Casa Bianca. Se pensiamo ad oggi, Mike Pence è l’uomo dell’equilibrio nella campagna di Trump (come si è visto proprio durante il dibattito), Kaine è il profilo più adatto (moderato, di vedute analoghe su molti temi) per un ticket con l’ex segretario di Stato.
In generale, alla scadenza degli otto anni di amministrazione Obama, non è più un azzardo affermare che Biden sia stato per il presidente il migliore vice possibile. Noto gaffeur – in vista delle presidenziali 1988 si ritirò dalla corsa alla Casa Bianca perché fu beccato a copiare discorsi e slogan di altri politici, quali John e Bob Kennedy e l’allora leader laburista britannico, Neil Kinnoc, senza mai citare la fonte –, ma tante le affinità tra i due, anche su temi scottanti quali il contrasto alla violenza con armi da fuoco. Già ai tempi del Brady Bill – un progetto di legge che prevedeva l’obbligo del porto d’armi (dal nome di James Brady, il portavoce di Reagan che rimase semi-paralizzato a causa dell’attentato dell’81 al presidente repubblicano) – l’allora leader della Commissione giustizia del Senato si diceva convinto di un’opinione diversa, al riguardo, diffusa nel paese. Che l’argomento sia di strettissima attualità ancora oggi – anche perché le limitazioni alle armi possono variare di Stato in Stato – è un altro paio di maniche. Biden (che ha avuto una vita non facile: oltre a Beau, perse moglie e una figlia nel 1972 per un incidente stradale, poco dopo la sua prima elezione al Senato) in maniera più energica di Obama si sta spendendo contro Trump. È accaduto alla convention democratica di luglio e di nuovo pochi giorni fa, commentando le gaffe del tycoon di New York sui veterani e i disturbi da stress post-traumatico (suo figlio Beau servì in Iraq).
Quando Bush jr. chiese a Dick Cheney – capo di gabinetto alla Casa Bianca con Gerald Ford, per una decina d’anni deputato alla Camera dei rappresentanti, poi segretario alla Difesa nell’amministrazione Bush (padre) – di correre al suo fianco, presto l’attenzione si spostò sul suo stato di salute, avendo lui un cuore malandato: aveva già subìto diversi infarti e nel 1988 gli fu applicato un quadruplo bypass. Cheney ebbe un lieve malore a novembre del 2000, poche settimane dopo il voto e un anno più tardi gli fu applicato stavolta un pacemaker per regolarizzare il ritmo cardiaco. Le condizioni fisiche sono un elemento chiave, in termini di trasparenza, per un candidato. Lo abbiamo visto di recente con Hillary Clinton e la sua polmonite, ma anche i vice non scappano: stando al XII emendamento della Costituzione sono persone che potrebbero un giorno guidare la prima potenza al mondo.
Le puntate precedenti:
Usa 2016. I costi della cattiva condotta della polizia
Usa 2016. Trump-Clinton, il primo round
Usa 2016. Tensioni razziali e ciclicità degli eventi: “all involved”
Usa 2016. Chicago violenta, percezione e realtà
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