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Usa 2016. La cultura hip hop negli anni di Obama

Linguaggio. Arte. Musica. Stile di vita. Uno spaccato d’America importante. Che vota e influenza i più giovani. Intervista a John Robinson, artista della scena underground di New York
di Fabio Germani

La recente inaugurazione a Washington del Museo di storia e cultura afroamericana è stata il pretesto per l’ultimo, tangibile, tentativo di mediazione («La storia degli afroamericani non è separata dalla storia americana, ne è una parte centrale», ha ricordato il presidente Obama), a poco più di un anno dalla commemorazione della marcia di Selma del 1965. Hillary Clinton, nel corso del primo dibattito presidenziale alla Hofstra University, è stata chiara: bisogna «mettere fine a questo razzismo sistemico». C’è un paradosso, infatti, nell’America di Obama: tanti ragazzi neri sono finiti morti ammazzati per mano della polizia, come se i morti ammazzati per le strade delle metropoli e le vittime delle guerre tra gang non fossero già abbastanza. Così l’hip hop, sulla scia dell’attivismo di Black Lives Matter, si è rimesso in moto. Letteralmente. The Game e Snoop Dogg hanno marciato a Los Angeles, T. I. ad Atlanta. I loro sono nomi famosi anche al di fuori dei confini statunitensi, mentre poco si sa di quegli artisti – alcuni più conosciuti, altri meno – che quotidianamente danno un contributo fondamentale alla causa. Il più delle volte la loro è una militanza senza ritorno mediatico, nel senso che non vinceranno mai un Grammy, non otterranno premi o riconoscimenti internazionali, ma in compenso saranno riusciti a salvare qualche vita, lì nel quartiere.

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Segnatevi allora questo nome: John Robinson. È uno cresciuto a pane e hip hop, componente e leader dello storico gruppo underground Scienz Of Life, già presidente dell’etichetta indipendente Shaman Work Recordings (etichetta che ha lanciato, tra gli altri, alcuni dei primi lavori di livello di Aloe Blacc quando faceva rap negli Emanon prima di diventare Mr. I Need A Dollar). È con lui che cerchiamo di capire come questa musica, che un tempo esibiva talenti nei bassifondi, sia riuscita ad elevarsi ad un grado di coscienza superiore. «L’hip hop è eccezionale e andrebbe insegnato regolarmente nelle scuole», dice Robinson a T-Mag. Originario del Bronx, cresciuto tra il Queens e il New Jersey, nel 2006 ha pubblicato una pietra miliare dell’underground, The Leak Edition Vol. 2, ma già a partire dai primi anni del nuovo secolo si era messo in mostra da solista e con i Scienz Of Life (l’ultimo lavoro è un ep dal titolo Water The Plants, uscito ad aprile). Amante del jazz, ha collaborato con grandissimi produttori della scena e non solo – da J. Rawls a PVD e Flying Lotus –, ma il suo impegno non si limita al rap. Così può capitare di vederlo partecipare a qualche incontro – a New York o in altre città –, dove insegna i valori dell’hip hop ai ragazzi più giovani.
Il 2016 è un anno elettorale negli Stati Uniti che porta i nomi di Alton Sterling e Philando Castile, ma anche quelli dei poliziotti uccisi dal venticinquenne veterano dell’Afghanistan, Micah Johnson, a Dallas, durante le proteste di luglio. La retorica di Trump divide, quella di Clinton è debole. Nel mentre l’hip hop si riorganizza a dispetto di una letteratura troppo attenta al costume, traduzione fedele della fenomenologia di Kanye West e Kim Kardashian. JAY Z, proprio nei giorni dei disordini a Dallas, ha rilasciato Spirituals, un brano-denuncia della brutalità poliziesca. Il pezzo, che avrebbe potuto vedere la luce già nel 2014 dopo l’uccisione di Michael Brown, è stato diffuso tramite Tidal, la piattaforma streaming di cui è proprietario, accompagnato da una nota: «Sono rattristato e deluso in questa America, dovremmo essere più avanti. Non lo siamo». Anche sua moglie Beyoncé è stata perentoria: «Siamo stanchi delle uccisioni di uomini e donne della nostra comunità. Sta a noi prendere una posizione».

L’hip hop ha un seguito che negli anni è cambiato molto, oggi più partecipe, ma spesso veicolato dalle intuizioni commerciali delle case discografiche. The Get Down è l’alfa, Empire l’omega: da megafono della strada a massificazione, come ha avuto modo di scrivere Questlove (The Roots) sul New York Magazine. Quale la verità? Prodotto patinato o voce che ha ancora tanto da dire? A quest’ultima considerazione John Robinson risponde senza indugi. «L’hip hop è uno degli elementi chiave nella rivoluzione dell’educazione, non solo qui in America, ma nel mondo, ed è evidente che deve essere più presente. L’hip hop è qualcosa di immenso, è la cosa più grande che mi sia mai capitata nella vita». È vero anche, però, che l’hip hop si trasformò presto in un business fruttuoso: il successo, i soldi, le auto di lusso. Ostentare ricchezza, talvolta rincorsa con l’ausilio della violenza, era un modo per esorcizzare un’esistenza altrimenti ai margini della società. Ma era, allo stesso modo, lo sforzo di una generazione intera di conciliare, di ottenere una pacificazione con quella frazione di universo che l’aveva invece snobbata e allontanata. Quel compito è stato portato a termine o quasi. Ora è il momento di proiettarlo nel futuro. «Il prossimo step dell’hip hop – spiega Robinson – dovrà essere espandersi e diventare qualcosa da insegnare regolarmente nelle scuole perché è parte della cultura e non perché è “cool”. Perché i giovani di ogni provenienza a contatto con qualsiasi area urbana di qualsiasi parte del mondo sono in sintonia con l’hip hop. E se possiamo collegare le due cose, tutte queste persone possono apprendere ed esprimersi al meglio, perché è una storia con cui hanno familiarità. Questo per me è il prossimo livello. Hip hop non solo come musica, ma cultura, stile di vita, regole, linguaggio. L’hip hop è tutto questo».

Il sogno obamiano sembra essersi infranto e oggi un segmento importante della società statunitense è più timorosa e diffidente. Secondo un’indagine del Pew Research Center l’84% degli afroamericani sostiene che la polizia si comporti in maniera ingiusta nei loro confronti. In realtà il presidente americano non può fare molto in materia poiché le forze di polizia sono appannaggio delle governance locali, ancora nel 2016 espressione in diverse aree delle disparità razziali. A detta di qualche attivista e intellettuale il grosso limite di Obama – nonostante la portata storica della sua elezione, otto anni fa – è stato quello di non essere riuscito a gettare le basi per un’America post-razziale. Un’analisi New York Times/CBS condotta lo scorso anno afferma che alcuni mesi prima dell’ingresso di Obama alla Casa Bianca il 59% dei cittadini neri definiva genericamente negative le relazioni razziali. Questa percentuale scese subito dopo il successo elettorale dell’allora senatore dell’Illinois, per poi risalire al 68% a distanza di sette anni, il valore più alto dalle rilevazioni che seguirono le proteste di Los Angeles del 1992. Ma secondo un sondaggio Gallup, tanti cittadini  – bianchi, neri o ispanici  – ritengono oggi migliorate le proprie condizioni di vita rispetto al 2008. L’attuale amministrazione ha provato a colmare il gap, che pure persiste in molte realtà, attraverso programmi federali tipo My Brother’s Keeper, il piano di sostegno che mira a tenere lontani dai guai i giovani ragazzi neri, permettendo loro di accedere ad un’adeguata istruzione. In alcune occasioni, pubbliche e private, Obama ne ha discusso con i protagonisti dell’hip hop e della musica nera: Kendrick Lamar (uno capace di scomodare nelle sue liriche Fannie Lou Hamer), Common e Chance The Rapper (due che conoscono bene i problemi di Chicago), e ancora Ludacris, J. Cole, Dj Khaled, Nicki Minaj e Alicia Keys. Che l’inquilino della Casa Bianca sia fan di molti di loro non è un segreto, ma al di là di questo ha senso che si faccia consigliare da artisti rap. La persuasione che l’hip hop sia una forma di giornalismo, una spietata narrazione dell’ambiente circostante (chiedere a Chuck D dei Public Enemy o a Ice Cube), è opinione ormai condivisa. «L’hip hop – afferma John Robinson – è storytelling, è raccontare storie di grandi persone che hanno vissuto prima di noi, così che chi ascolta può immedesimarsi e farne esperienza. Un vero artista hip hop fa questo. Raccontiamo storie e le facciamo vivere. È giornalismo, assolutamente».

Siccome l’hip hop è anche un’arte estemporanea, la filosofia del qui e ora può manifestarsi in tanti modi diversi. Un duo bianco – Macklemore e Ryan Lewis – nel 2012 ha messo in rima l’amore in tutte le salse (Same Love), sdoganando uno dei più antichi tabù del movimento – l’omosessualità –, strada già battuta due anni prima nel sottobosco della scena rap da SoulStice, al secolo Ashley J. Llorens, che oggi svolge un importante lavoro alla Johns Hopkins University. Uno schema che è soprattutto il superamento dello stile gangsta tanto in voga negli anni ’90 e di quei cliché che hanno spesso condizionato i giudizi di pubblico e critica. «L’hip hop per me è amore – insiste Robinson – e lo dico perché è una forza dinamica sotto forma di cultura che avvicina le persone al di là del colore, credo, religione, filosofia, razza, scuola di pensiero. Persone di tutte le provenienze sotto l’ombrello dell’hip hop: è semplicemente la forza più grande e dinamica dell’universo».

Oggi sembra perciò uniformarsi un modello di impegno che coinvolge artisti underground e mainstream e che va di pari passo con Black Lives Matter. Tutto è cominciato, nel 2013, con l’assoluzione di George Zimmerman, il vigilante di quartiere che l’anno prima uccise il 17enne Trayvon Martin a Sanford, Florida, per effetto della controversa Stand Your Ground, legge che giustifica l’aggressione in caso di pericolo. Martin era disarmato e certo non poteva rappresentare una minaccia, eppure la sua vita venne interrotta in un fatale istante. Mentre Black Lives Matter prendeva forma furono dedicati a Martin mixtape distribuiti online con pezzi di Young Jeezy (It’s A Cold World), Wyclef Jean (Justice – If You’re 17), oppure singoli brani come Made You Die dei Dead Prez e Mos Def (ora Yasiin Bey), quando Luke Cage – il protagonista dell’omonima serie Marvel prodotta da Netflix – ancora non andava in giro per Harlem con il cappuccio della felpa rialzato, iconico omaggio al giovane. Tra il 2014 e il 2015, tra i casi di Michael Brown a Ferguson e Freddie Gray a Baltimora, si è allora osservato un coinvolgimento crescente. Dischi ad alto contenuto civile, produzioni e brani tematici – Kendrick Lamar (To Pimp a Butterfly) e grandi della black music quali D’Angelo (Black Messiah) e Prince (Baltimore) – come in passato toccò a Nina Simone, Curtis Mayfield e James Brown cantare la protesta, l’avversità al diffuso retaggio delle leggi Jim Crow.

Le differenze di approccio al genere si sono dunque ridotte negli ultimi dieci anni. «Da allora ci sono molti più artisti che si sono fatti da soli e che hanno condiviso la loro musica costruendo una comunità in tutto il mondo, sono stati in grado di fare rete, di viaggiare, di produrre tanto più rispetto a quando The Leak Edition Vol. 2 è uscito nel 2006, parliamo di dieci anni. Molte cose sono cambiate, ma in meglio: ci sono un sacco di giovani che hanno capito come mostrare il loro talento, guadagnare popolarità, esibirsi. Gente come Joey Bada$$, Kendrick Lamar o Bishop Nehru, che hanno saputo trovare la loro strada. Un altro cambiamento è rappresentato dalla tecnologia: i social media sono più sofisticati di dieci anni fa, ora possiamo comunicare e trasmettere informazioni in maniera iperveloce. Il cambiamento è l’unica costante nell’universo. Personalmente credo che molti artisti underground siano più attenti al territorio e a ciò che succede nella politica, nel mondo, alle notizie quali la violenza nelle loro comunità, la brutalità della polizia, le elezioni presidenziali, la politica estera e tutti quegli argomenti più affini alla sfera di loro competenza. Nella scena mainstream è diverso, si tratta più di fare festa, bere alcol, divertirsi ed essere spensierati. Ma sai, l’hip hop è una cosa vasta, è più del ballo, dei graffiti, dei dj. È una cultura, ha un suo linguaggio, leggi e regole proprie, un pensiero dinamico e uno sviluppo senza limiti. L’hip hop è eccezionale». E soprattutto ha travalicato i suoi confini, stravolgendo l’esclusività nera d’Oltreoceano. «Ci stiamo tutti muovendo ad un livello più alto: hip hop europeo, hip hop americano, filippino, cinese, in Sudafrica. Puoi pensare qualsiasi posto e l’hip hop è lì, è una cosa bellissima e potente».

@fabiogermani

Le puntate precedenti:
Usa 2016. L’America si prepara al voto
Usa 2016. L’ultimo duello Trump-Clinton
Usa 2016. I media al fianco di Hillary
Usa 2016. Il difficile weekend di Trump
Usa 2016. L’importante ruolo del vicepresidente

 

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