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Il lavoro secondo la “gig economy”

Un modello economico che è già di successo, ma che per il momento non assicura ai lavoratori garanzie e tutele
di Silvia Capone

Da una ricerca condotta dal Pew Research Center emerge che un americano su quattro ha guadagnato soldi tramite la “gig economy” e che il 56% degli intervistati considera questa forma di reddito importante, se non essenziale. Ma cos’è la gig economy? È un nuovo modello economico, definito anche economia on demand in cui domanda e offerta di lavoro si incontrano tramite piattaforme online. È traducibile con economia del ”lavoretto”, perché è caratterizzata da saltuarietà e prestazioni lavorative svolte da chiunque sia disponibile al momento.

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Le app, che si riservano il solo compito di mettere in contatto gli utenti, selezionano automaticamente i lavoratori disponibili più vicini tra i quali il richiedente può fare una selezione in base alle valutazioni precedenti. Il modello della gig economy stravolge quelli tradizionali fondati sul salario mensile e (talvolta) sul posto fisso, che vengono soppiantati da prestazioni su richiesta e non continuative nel tempo. Si differenzia anche da un’altra modalità che si sta affermando e con cui spesso viene confusa, la sharing economy, ovvero l’economia della condivisione, che ha come principio quello di risparmiare costi per un’attività che si svolgerebbe in ogni caso (un esempio: la differenza che c’è tra le piattaforme di Uber, gig economy, in cui si paga per un noleggio con conducente, e BlaBla Car, con cui una persona mette a disposizione posti liberi in auto per un tragitto che deve compiere, al fine di abbattere i costi). In quanto iscritti solo ad un’applicazione i lavoratori sono in proprio e non sono necessariamente dei professionisti. Secondo uno studio pubblicato ad ottobre dal McKinsey Global Institute, che ha contabilizzato il lavoro autonomo nelle società avanzate e nell’Europa a 15, i lavoratori indipendenti superano i 162 milioni, ovvero una quota compresa tra i 25 e il 30% della popolazione in età lavorativa. Un dato che potrebbe essere visto al rialzo grazie alla gig economy, aumentando il numero degli autonomi, che solo in Europa passerebbero da 89 a 138 milioni. Non solo un aumento complessivo degli occupati, ma anche una conseguente crescita del Pil mondiale pari al 2% annuo è prevista entro il 2025.

LAVORATORI AUTONOMI, MA OCCASIONALI
Le implicazioni economiche della gig economy non sono però così semplici, infatti esiste un’oggettiva difficoltà nel definire giuridicamente questi lavoratori, autonomi ma occasionali. Chiunque può svolgere lavori tramite piattaforma, anche non professionisti e a ciò si lega inevitabilmente il problema del tetto massimo di reddito guadagnabile da un’attività economica occasionale, com’è di base la gig economy, senza l’apertura di una partita Iva. Alcuene società contrastano il lavoro nero con pagamenti che avvengono tramite bonifico, dunque rintracciabili. Non emerge, però, solamente la problematica dell’economia sommersa, infatti coloro che trovano nella gig economy una fonte di reddito, essendo autonomi, non godono di alcuna garanzia, le piattaforme non sono tenute a versare contributi previdenziali e assistenziali, il lavoro è saltuario, legato spesso alle valutazioni e con una retribuzione non fissa. A ciò si aggiungono le difficoltà per gli autonomi di riunirsi in sindacati e contrattare in modo collettivo compensi orari maggiori e migliori condizioni. Un modello, in conclusione, di successo, ma che deve ancora trovare la giusta collocazione e dimensione: migliora la partecipazione alla forza lavoro, per il momento a scapito di garanzie e tutele.

 

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