Guida al referendum. Le ragioni del “Sì” e del “No”
Il 4 dicembre i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimersi, tramite referendum, sulla riforma costituzionale recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione”. T-Mag ha dedicato al tema una Guida, ripartita nei seguenti punti:
1. La riforma del Senato
2. La revisione del Titolo V
3. I costi della politica
4. Gli strumenti di democrazia diretta
Nella quinta parte della Guida al referendum costituzionale sintetizzeremo, punto per punto, le ragioni dei fautori della riforma e quelle dei contrari.
LA RIFORMA DEL SENATO
La prima questione che viene sottolineata dai sostenitori del “Sì” è il superamento del bicameralismo paritario, che dovrebbe tradursi in tempi più rapidi ed efficaci nell’attività parlamentare. L’effetto sarebbe un Parlamento che presenta due Camere distinte nelle funzioni, nella composizione e nei ruoli. Poiché al nuovo Senato spetterebbe – escluse alcune specifiche materie – un compito pressoché di “supervisione” sulle leggi approvate dalla Camera (il Senato può proporre modifiche che la Camera può accogliere o meno), l’iter parlamentare dovrebbe risultare più snello e assicurare una maggiore tempestività d’intervento, evitando quello che viene definito “ping pong”.
Tra le ragioni del “No”, tuttavia, si sottolinea che un reale superamento del bicameralismo paritario sarebbe stato possibile solo tramite l’abolizione del Senato, che non viene invece eliminato, con il rischio di una disordinata sovrapposizione dei ruoli. Piuttosto si ritiene che le competenze del Senato, restando numerose, aumenterebbero le procedure legislative causando conflitti di attribuzione (ma il procedimento bicamerale è previsto in alcuni specifici casi: revisioni costituzionali, ordinamento degli enti territoriali, formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea). Inoltre si lamenta la mancanza di elezione diretta dei senatori (la composizione del nuovo Senato risulterebbe infatti: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica), che però godranno di immunità parlamentare. È quest’ultimo, non a caso, uno dei temi più spinosi: mentre i fautori del “Sì” ritengono che l’Art. 68 (in verità già sottoposto a diverse modifiche in passato) non debba essere riformato a tutela dell’esercizio democratico (in riferimento, cioè, alla tutela dell’insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio delle funzioni di parlamentari), i sostenitori del “No” sostengono che tale possibilità amplia il raggio d’azione, ovvero anche per gli atti compiuti in quanto consiglieri regionali e sindaci, “perché le immunità dagli arresti, le perquisizioni e le intercettazioni non hanno nessun limite di funzioni”.
Per ulteriore chiarezza: dopo le modifiche introdotte nel 1993 l’autorizzazione a procedere su cui la Camera di appartenenza verrebbe poi chiamata ad esprimersi riguarda le possibili misure cautelari nei riguardi di chi la magistratura richiede la prosecuzione dell’azione penale (arresto, perquisizioni, intercettazioni), allo scopo di verificare che sussistano i presupposti per l’applicazione delle misure stesse. In caso di colpevolezza – sentenza passata in giudicato – o flagranza di reato, non è possibile per la Camera di appartenenza opporsi all’applicazione della pena.
LA REVISIONE DEL TITOLO V
Questa parte è probabilmente la più ostica in quanto risulta al momento molto difficile prevedere gli effetti che la riforma costituzionale produrrebbe. Le convinzioni dei fautori del “Sì” alla revisione del Titolo V della Costituzione riguardano soprattutto le competenze Stato-Regioni, per meglio dire il riordino delle competenze concorrenti – molte delle quali ritornerebbero di competenza statale. La redistribuzione delle materie comporterebbe una riduzione dei contenziosi, quindi dei ricorsi alla Corte Costituzionale (perciò, riassumendo: maggiore chiarezza delle competenze e considerevoli risparmi).
Tra quanti sostengono il “No”, al contrario, questa sicurezza non c’è. Anzi, il riordino delle competenze potrebbe provocare maggiore confusione equivalente, nel lungo periodo, ad un incerto numero di ricorsi. Inoltre la revisione, così come specificato nelle disposizioni finali, non si applica alla Regioni a statuto speciale. La riforma, infatti, si applicherebbe solo a seguito di modifica dei loro statuti, ma anziché prevedere un parere (non vincolante) della Regione interessata su modifiche allo statuto, la riforma renderebbe necessaria l’intesa, con il rischio di creare crescenti disparità nei rapporti (anche per questioni di interesse nazionale) con le due tipologie di Regione, ordinarie e speciali.
I COSTI DELLA POLITICA
In un primo momento erano state indicate alcune cifre relative al risparmio derivante dalla riduzione dei parlamentari (in virtù della composizione del nuovo Senato), dal contenimento dei costi delle istituzioni e dall’abolizione del CNEL (il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro). Per fare chiarezza, come abbiamo già sottolineato nella terza parte della Guida al referendum costituzionale, è opportuno illustrare i calcoli del ragioniere generale dello Stato, secondo cui “la riduzione del numero dei senatori (esclusi quelli nominati dal presidente della Repubblica) potrebbe garantire risparmi per 49 milioni di euro, 40 dei quali provenienti dal taglio delle indennità e circa 9 milioni dalla ‘cessazione’ della diaria mensile. Mentre l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro, contenuta nell’articolo 39, comma 1, produrrebbe risparmi pari a 8,7 milioni di euro, 4,5 dei quali riconducibili ai costi sostenuti attualmente per il personale e circa tre milioni per mantenere Villa Lubin, la sede del CNEL”. I sostenitori del “No”, a tale proposito (e con particolare riferimento alla riforma del Senato e alla riduzione dei parlamentari), affermano che la diminuzione dei costi è minima e che per un calo significativo sarebbero servite misure più incisive (abolizione del Senato, appunto, o dimezzamento dei deputati). Ma tra i fautori della riforma il contenimento dei costi non si limita solo al numero inferiore dei senatori, poiché questi non percepiranno indennità. I consiglieri regionali, si aggiunge, non potranno percepire un’indennità più alta di quella del sindaco del capoluogo di Regione e i gruppi regionali non avranno più il finanziamento pubblico.
GLI STRUMENTI DI DEMOCRAZIA DIRETTA
Chi è contrario alla riforma ricorda che viene ristretta la possibilità di partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche, aumentando da 50 mila a 150 mila le firme per i disegni di legge di iniziativa popolare. Per quanto riguarda i referendum, solo nel caso in cui venissero raccolte 800 mila firme (300 mila in più dalle 500 mila altrimenti già previste), si avrebbe come effetto un potenziale abbassamento del quorum, commisurato alla “maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”. In questo modo, è la critica, si avvantaggerebbero i referendum proposti dalle grandi associazioni e dai grandi partiti, a scapito cioè di cittadini non organizzati, piccole associazioni o piccoli partiti.
Tra i favorevoli la posizione espressa è diametralmente opposta: la riforma costituzionale rafforzerebbe gli strumenti della democrazia diretta. Questo perché il Parlamento avrà l’obbligo di discutere e deliberare sui disegni di legge di iniziativa popolare proposti da 150 mila elettori e saranno introdotti i referendum propositivi e d’indirizzo (sebbene sarà una legge costituzionale, in un secondo momento, “a stabilire ‘condizioni ed effetti’ di tali strumenti”. Un quorum più basso per la validità dei referendum abrogativi, se richiesti da ottocentomila elettori, è da ritenersi positivo secondo i sostenitori della riforma.
La guida completa al referendum costituzionale a cura della redazione di T-Mag