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Lavoro: così l’evoluzione del precariato

Nel 2015 in Italia sono cresciuti sia i dipendenti a tempo indeterminato sia quelli a termine. Ma tale condizione ha interessato anche altri paesi europei negli anni della crisi
di Redazione

L’aumento complessivo dei voucher nel 2016 – si legge nel rapporto sul precariato dell’Inps – è stato del 23,9% sull’anno precedente. Inoltre, nel periodo gennaio-novembre, è rallentato l’incremento delle assunzioni, in particolare a tempo indeterminato, a causa della flessione di questa tipologia rispetto al 2015, con le aziende che hanno potuto beneficiare integralmente degli sgravi fiscali previsti.

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Ad ogni modo, secondo un recente rapporto del Centro studi di Unimpresa sul mercato del lavoro, negli ultimi cinque anni l’occupazione è aumentata in Italia dell’1,5% (ma è calata al Sud). Contestualmente, stavolta secondo una ricerca Inps-Veneto Lavoro, dal 2008 al 2015 due milioni e mezzo di lavoratori sono stati pagati con 277 milioni di voucher da 10 euro lordi.
I voucher in particolare (concepiti per pagare regolarmente i lavoratori occasionali) sembrano, a detta di molti, essere diventati ora uno strumento che incentiva il precariato molto più di quanto riesca a contrastare quella porzione di economia sommersa interessata, da quando cioè sono stati estesi a diverse categorie e tipologie di impiego (ma le norme sulla tracciabilità entrate in vigore nella seconda metà di ottobre hanno cominciato a frenarne l’acquisto, afferma l’Inps).
Certo il ricorso ai voucher non è l’unico parametro per misurare la qualità del lavoro. In generale, infatti, come già sottolineato nel Rapporto Bes 2016 dall’Istat, su questo piano gli indicatori hanno mostrato miglioramenti contenuti. Da una parte si è assistito ad un aumento di transizioni verso un’occupazione stabile, dall’altro (anche se in tono minore) sono diminuiti gli occupati a termine da almeno cinque anni (che sono i cosiddetti precari permanenti o di lungo periodo), mentre la presenza di lavoratori con bassa remunerazione è rimasta costante.
È vero anche, però, che nel 2015 sono cresciuti sia i dipendenti a tempo indeterminato, sia quelli a termine, con un’incidenza sul totale dei dipendenti – per quest’ultimo segmento – al 14%, che coinvolge soprattutto le donne (il 14,5% rispetto al 13,6% degli uomini, dati Annuario statistico 2016 dell’Istat). Ed è anche a causa del precariato che molti giovani, uomini e donne, non riescono ad uscire dalla casa dei genitori (sette su dieci, stando alle ultime stime Eurostat).
Negli anni della crisi si è registrato un aumento sostanzioso del part-time involontario, che però non ha interessato solo l’Italia. Pochi giorni fa l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha sottolineato come anche in Spagna si sia fatto ricorso in maniera costante a questa formula. E la crescita delle tipologie contrattuali a tempo determinato hanno interessato anche paesi quali Portogallo, Olanda e, seppure in quota minore, Francia (dal secondo trimestre 2016 l’occupazione a termine si è attestata nell’Ue28 al 14,3% dell’occupazione totale).
Non a caso, nell’Unione europea, oltre il 60% di chi ha un contratto a tempo determinato rientra nella categoria del lavoro involontario, ovvero quelle persone che vorrebbero un impiego più stabile, ma accettano la condizione loro proposta in mancanza d’altro. I due indicatori – part-time e lavoro a termine involontario – hanno una correlazione tra loro, ma specialmente il secondo tende ad essere più alto nei paesi in cui l’occupazione temporanea ha un’incidenza più o meno elevata sul totale dell’occupazione.

 

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