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Cosa è l’home restaurant (e perché se ne sta parlando molto)

Il fenomeno del social eating, come funziona e le ragioni di chi vuole regolamentarlo (e di chi meno)
di Silvia Capone

Numerosi dibattiti hanno interessato ultimamente le attività di sharing e gig economy, ovvero rispettivamente l’economia della condivisione e on demand, perché non regolata in molti casi. Questo tipo di economia include diversi “lavoretti” alternativi alle tradizionali professioni, tra cui l’home restaurant (o ristoranti domestici come vuole la Crusca). Fondamentale distinguere tra due tendenze ora in voga, l’home restaurant ovvero l’organizzazione di eventi culinari con regolarità e fini imprenditoriali, in cui i compensi economici hanno una valenza importante; e il social eating, i cui eventi “mangerecci” sono sì a pagamento, ma rigorosamente saltuari.

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I due fenomeni sono così diffusi che la Camera ha da poco introdotto una norma che definisce entrambe le attività lavoro occasionale. Sarà quindi fissato un massimo di 500 coperti l’anno e un compenso fino a 5.000 euro nello stesso arco temporale (l’apertura di una partita IVA scatterebbe allo sforamento della soglia massima altrimenti prevista), insieme all’obbligo di prenotazione e pagamento tramite dispositivi digitali per meglio controllare e contenere l’evasione fiscale. Ulteriori novità saranno il rispetto di norme di agibilità per le case ospitanti, e il divieto di conciliare, nella stessa abitazione, home restaurant e b&b. La normativa, non ancora in vigore, ha già suscitato numerosi disappunti tra gli utenti e i fondatori delle principali app del settore.

L’attività di social eating, se il disegno di legge sarà approvato anche al Senato, sarà permessa solo tramite piattaforme digitali, di cui gli italiani ne fanno già largo uso. Basti pensare che gli utenti della maggiore applicazione del settore, Gnammo, erano nel 2016 circa 200 mila. L’app ha inoltre preceduto il disegno di legge con un “codice etico partecipato” che distingue le due attività in esame. I fondatori dichiarano di sfruttare quel che è il social network più antico del mondo, la tavola, e che nell’attività il punto cardine è, oltre il cibo, la voglia di socializzare, non il fattore economico, anche se per molti utenti-cuochi è un ottimo modo per arrotondare. L’organizzazione dell’evento avviene interamente online: il cuoco propone menù e prezzo e può decidere, tra gli interessati, i commensali. La community degli utenti di tutte le applicazioni è in disaccordo con le limitazioni poste dalla normativa, soprattutto per il totale uso delle piattaforme e il divieto di ospitare nella stessa struttura anche un b&b (tipo Airbnb altra forma di sharing economy). Mentre sull’altro versante esultano i ristoratori tradizionali, che vedono nell’home restaurant una forma di competizione sleale, infatti secondo le stime di Fiepet-Confesercenti, nel solo 2014 l’attività avrebbe fatturato circa 7,2 milioni di euro e può contare su 37 mila eventi organizzati.

Interpellato dall’Ansa sull’argomento, il fondatore della piattaforma homerestaurant.com ha sostenuto che la stima fatta da Confesercenti sul fatturato dell’attività corrisponderebbe ad un decimillesimo del fatturato dei ristoranti italiani, quindi in termini economici la perdita del settore sarebbe di un euro ogni 10 mila (diecimila).

L’home restaurant – a detta di chi opera in questo settore – non si pone in competizione con la ristorazione tradizionale, anzi si propone come uno strumento di crescita e sviluppo. Infatti, sta nascendo, ad opera di una delle app operanti, il social restaurant, ovvero il modo di far conciliare il principio del social eating con i ristoranti: organizzano lì cene per sconosciuti, prenotabili solo tramite piattaforma. In definitiva appare del tutto evidente una delle principali contraddizioni che sta caratterizzando l’universo della sharing economy. Da un lato si mira a migliorare i servizi offerti, aumentando le tutele degli utenti, la trasparenza e – nella fattispecie – la sicurezza dei cuochi non più in dubbio sulla loro legalità. Ma dall’altro chi opera nei nuovi settori lamenta vincoli e divieti per coloro che intraprendono un micro business che, pur con i suoi limiti, potrebbe ridare slancio ai consumi interni e sostenere l’economia nella sua fase di risalita.

 

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