IA: una leva per crescita e lavoro?
Se prima capitava di parlarne soprattutto in occasione dell’uscita di un film di fantascienza, oggi l’Intelligenza artificiale (IA) è una realtà più che mai concreta. Così concreta da creare anche molti dubbi sulle possibili conseguenze di un suo impiego. Una delle perplessità che scaturiscono dall’avvento dell’Intelligenza artificiale è quella che in qualche modo l’essere umano, in quanto lavoratore, possa essere sostituito, dando il via ad una sorta di disoccupazione di massa. Secondo diversi studi – come quello di McKinsey già descritto – una parte consistente delle mansioni potrebbe essere presto svolta in maniera automatizzata. Il timore di poter essere rimpiazzati da una macchina – o un robot – in grado di riprodurre le facoltà mentali umane è quindi, in un’ottica allarmistica, quantomeno giustificato.
Ma è davvero così? Secondo uno studio di Accenture, presentato al World Economic Forum, per scongiurare la riduzione dei posti di lavoro legata allo sviluppo dell’automazione è necessario sviluppare le competenze dei lavoratori stessi.
Secondo l’indagine, svolta su un campione di 10,527 lavoratori di dieci diversi paesi, se lo sviluppo di alcune capacità umane – come la creatività, il pensiero critico, l’intelligenza emotiva e la capacità di leadership – venisse raddoppiato, la quota di posti di lavoro a rischio diminuirebbe “dal 10% al 4% entro il 2025 negli Stati Uniti. Secondo lo stesso meccanismo si assisterebbe a un calo dal 9% al 6% nel Regno Unito e dal 10% al 5% in Germania”.
In poche parole, spiega l’azienda, “la skill revolution parte dai CEO: dovranno essere proprio i manager delle aziende a dare ancora più centralità alla propria forza lavoro, accompagnandola verso le nuove frontiere professionali dell’era digitale”.
Del resto, una maggiore automazione dei sistemi produttivi, attraverso appunto l’Intelligenza artificiale, garantirebbe notevoli vantaggi a livello economico. Secondo un altro studio, sempre di Accenture (basato sui dodici Paesi che, da soli, generano metà della produzione mondiale), l’IA potrebbe infatti aumentare la produttività di un Paese anche del 40%, oltre che raddoppiarne la crescita economica, da qui al 2035. Tutto ciò a patto che il Paese in questione rispetti alcuni presupposti, come ad esempio la capacità di innovare godendone i benefici. Proprio sulla base di simili presupposti le stime elaborate da Accenture per l’Italia risultano meno rosee rispetto a quelle formulate per gli altri Paesi considerati dall’indagine. Mentre le stime per gli Stati Uniti indicano una potenziale crescita del valore aggiunto della produzione compresa tra il +2,6% e il +4,6%, le previsioni per il nostro Paese si fermano ad un +1-1,8%. Per il Regno Unito le stime indicano invece un +2,5-3,9% e un +1,4-3% per la Germania.
Anche in termini di produttività, l’incremento previsto per l’Italia risulta inferiore agli altri Paesi esaminati nello studio: si parla di un +12% contro il +37% della Svezia, il +36% della Finlandia e il +35% degli Stati Uniti. Solo la Spagna farebbe peggio di noi, con un +11%.
Ma a cosa è dovuto il gap tra le stime per l’Italia e il resto dei Paesi considerati dall’indagine? Sostanzialmente, uno dei problemi del nostro Paese è che il grado di innovazione non è al livello dei nostri partner. Non solo, l’Italia è anche meno in grado di trarre benefici dalle innovazioni di cui dispone. Il nostro Paese è fanalino di coda – come ha ricordato Il Sole 24 Ore di recente – del National Absorptive Capacity, l’indicatore che misura appunto la capacità di un Paese di sfruttare le nuove tecnologie per crescere economicamente.