Indagine sul mondo delle “fake news”
Da alcuni giorni in Italia si è tornato a parlare in maniera incessante di fake news. Due i momenti in cui il dibattito è “cresciuto”: il primo quando due testate giornalistiche importanti – BuzzFeed prima, l’autorevole New York Times a distanza di pochi giorni – hanno pubblicato articoli (sintetizziamo al massimo) per cui l’Italia potrebbe essere in vista delle imminenti elezioni politiche la prossima “vittima” della propaganda russa, come già avvenuto con i casi di accuse a Mosca giunti dagli Stati Uniti e da altre parti in Europa (in occasione della Brexit o del referendum in Catalogna, ad esempio). Le fake news verrebbero in qualche modo veicolate tramite pagine Facebook o siti riconducibili ad alcuni partiti, il M5S e la Lega. Il secondo momento è stato quando, dal palco della Leopolda, il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha annunciato un report («ogni quindici giorni») per denunciare le falsità fatte circolare online. Sono seguite polemiche, soprattutto si registra uno scontro Pd-M5S, perché la ricerca che New York Times e BuzzFeed citano nelle rispettive inchieste è stata condotta da un giovane esperto informatico (Andrea Stroppa), consulente della società di sicurezza informatica di Marco Carrai, imprenditore vicino a Renzi. Di qui una serie di accuse reciproche.
T-Mag, per vocazione, non insegue le polemiche politiche, piuttosto cerca di capire come le cose si evolvono, i possibili scenari e l’impatto che determinate vicende possono avere sulle persone. Dunque – al netto delle preoccupazioni di tutti, giuste o sconsiderate (in precedenza il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, ha auspicato l’intervento dell’Osce per monitorare il regolare svolgimento delle elezioni) – riteniamo che la priorità sia stabilire in che modo (e se) le fake news possono influenzare le scelte e i comportamenti degli elettori. Ricordate un anno fa di questi tempi? Si diceva, all’epoca, che le fake news – per meglio dire: la post-verità – avessero influenzato il voto presidenziale, favorendo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Le cose andarono davvero così? Indagammo sul tema, coinvolgendo due professori di psicologia sociale (Nicoletta Cavazza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e Lorenzo Montali dell’Università Bicocca di Milano).
Con il senno di poi, sappiamo che “derubricare” la vittoria di Trump l’8 novembre 2016 ad una specifica questione – nel nostro caso le fake news, appunto – sarebbe un esercizio di scuola interessante, ma non esaustivo. Non terrebbe conto, infatti, di altri e forse più decisivi fattori. Sappiamo anche, però, che quello delle fake news è (ed è stato) un problema reale, qualsiasi sia la spinta – politica, mediatica o economica – da cui trae origine.
Partiamo da alcuni presupposti. Un conto sono le “notizie” che non rispettano appieno i criteri di notiziabilità (per mancanza di elementi, per sciatteria o per partigianeria del giornale): un modus operandi discutibile, ma che presenta dei contorni ben definiti. Un altro conto, invece, sono le notizie false (quindi delle non-notizie per come andrebbero altrimenti valutate), scientemente artefatte o fabbricate allo scopo di penalizzare una parte (politica) oppure ottenere un ritorno economico sfruttando le frustrazioni collettive e le vicende che possono provocare reazioni rabbiose (la tecnica del clickbait). Quest’ultime, una volta che diventano virali online, è molto difficile ricollocarle, così da attribuire una qualche responsabilità. Un’informazione fondamentale l’abbiamo appresa di recente, però: Facebook e Twitter hanno rimosso migliaia di account falsi, quasi tutti utilizzati da hacker russi.
In che modo le persone verrebbero coinvolte in questo tortuoso processo? Il report Securing Democracy in the Digital Age realizzato dall’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) arriva a sostenere proprio questo, cioè che le fake news sono in grado di condizionare l’esito di un’elezione. Ora questa conclusione sconfesserebbe quanto sostenuto alcune righe sopra, perciò deve essere chiaro che non c’è intenzione di sostenere un’idea anziché un’altra, semmai la volontà di descrivere un contesto che sia il più chiaro possibile.
Già prima delle presidenziali americane il tema fu a lungo al centro del dibattito politico e mediatico, ma la discussione è proseguita anche dopo. Stando ad una ricerca del Pew Research Center (condotta dal 13 al 27 marzo 2017, sulla base di 4.151 adulti statunitensi, diffusa nel mese di maggio) emerge una forte polarizzazione – una dinamica che meriterebbe un approfondimento a parte e che non riguarda solo la sfera politica – sul ruolo dei media. In pratica circa nove elettori democratici su dieci (89%) affermano che le critiche dei media alla classe dirigente (nel loro auspicabile ruolo di “cani da guardia”) sono utili perché mettono in riga i leader. Tra i repubblicani tale convinzione riguarda appena 4 elettori su 10 (42%), per un divario di 47 punti. Un’indagine molto più recente mette in risalto come la polarizzazione orienti persino i pareri riguardo il “rispetto” di altri paesi nei confronti degli Stati Uniti, mostrando discrepanze notevoli nelle percezioni legate all’attuale o alla precedente amministrazione. È questo l’ambiente – tanto negli Stati Uniti quanto in Europa – in cui prolificano le fake news. Secondo una ricerca pubblicata subito dopo le presidenziali del 2016, il 64% degli intervistati osservava che le notizie false provocano molta confusione, mentre il 23% ammetteva di aver condiviso storie politiche inventate, a volte per sbaglio e altre volte intenzionalmente. In un sondaggio tra esperti sul futuro di internet (ancora del Pew Research Center), il 51% risponde che l’ambiente informativo non migliorerà nei prossimi dieci anni, il 49% ritiene invece che migliorerà.
I social media sono un potente veicolo per le informazioni (se ne servono gli stessi giornali per diffondere i propri articoli): il 62% degli adulti statunitensi dichiarava a maggio 2016 di accedere alle notizie tramite i social network (e il 18% dichiarava di farlo spesso). Nel 2012, quando Barack Obama ottenne il secondo mandato alla Casa Bianca, la quota si attestava al 49%. Oggi, però, si starebbe verificando una lieve inversione di tendenza. Il Digital News Report 2017 del Reuters Insitute indica i servizi di instant messaging (tipo Whatsapp, per intenderci) quali canali informativi in ascesa, a scapito dei social che risultano essere leggermente in calo (anche a causa delle fake news).
In generale il dibattito sulle fake news può essere inquinato dai numeri, quelli relativi ai like di una pagina che alimenta informazioni gonfiate se non proprio inventate. Sono indagini quantitative il cui rischio è quello di restituire un’immagine distorta della realtà (ai like, migliaia, dati – o appioppati senza neppure saperlo – ad una pagina potrebbero non corrispondere i gradimenti ai singoli post degli utenti). Questo per quanto riguarda testate – molte delle quali regolarmente registrate – che si mostrano al pubblico quali portatrici di verità scomode, «che i media mainstream non vi sveleranno mai». Inoltre non va dimenticata la propaganda politica, il cui scopo è noto prima ancora di accettare idealmente la sua narrazione, che è sempre esistita e che online ha trovato a maggior ragione terreno fertile. Infine, altro aspetto della questione che non può essere più trascurato, i mezzi informativi tradizionali (quotidiani, tg, magazine…) hanno perso credibilità agli occhi dei lettori, come messo in evidenza da diversi studi sull’argomento. E tornare adesso sul perché e percome, ci pare francamente un’inutile ripetizione.
Per contrastare le fake news – ammesso e non concesso che la definizione sia corretta, alla luce delle precedenti riflessioni – si è immaginato un intervento diretto dei social, un controllo capillare. Ma la soluzione, peraltro in qualche caso già adoperata negli ultimi giorni, non convince a causa del pericolo “censura” che un privato – Facebook, Twitter… – applicherebbe ai danni di una testata editoriale per il mancato rispetto di policy, azioni che spesso avvengono in modo confuso e generico, cioè senza adeguate spiegazioni e trasparenza. Oppure, tra le altre proposte, la creazione di un algoritmo della verità. Su tali ipotesi il garante della privacy, Antonello Soro, si è espresso in questi termini (da Ansa.it): «Quello che bisogna evitare è da una parte attribuire ai gestori delle piattaforme digitali il ruolo di semaforo, lasciando loro una discrezionalità totale nell’individuazione di contenuti lesivi. E dall’altra evitare di immaginare di attribuire ad un algoritmo il compito di arbitro della verità. Mi sembra davvero in controtendenza non solo rispetto alla storia del diritto, ma anche della cultura democratica e del buon senso».
Sugli strumenti che noi per primi – in qualità di cittadini, utenti e lettori possiamo adottare per evitare le trappole del clickbait – riteniamo quanto mai illuminante il ragionamento di Lorenzo Montali, professore di Psicologia sociale all’Università Bicocca di Milano, intervistato un anno fa da T-Mag: «Dobbiamo sviluppare, in primo luogo a scuola, una nuova educazione nella fruizione dei media, che parta dalla consapevolezza che nessuno ha la competenza e la motivazione sufficienti per verificare la validità dell’enorme quantità di informazioni che riceviamo. Questa nuova educazione si deve fondare sul riconoscimento dei nostri limiti, che sono appunto cognitivi e di motivazione, nel valutare la qualità di una notizia, il che ci deve rendere meno sicuri di quanto talvolta siamo dei convincimenti che maturiamo. Questa è la precondizione affinché le persone sviluppino una certa consapevolezza del rischio di credere alle false notizie e quindi siano disponibili a valutare criticamente ciò che sentono o leggono».
[…] sia un problema ormai riconosciuto e su cui i big di internet (e non solo) stanno lavorando, le fake news, ben costruite che siano, continuano a circolare. Secondo una tesi avanzata da studiosi americani […]