In che modo il mercato del lavoro sta cambiando fisionomia
Ad aprile si è registrato il record di occupati in Italia, secondo le ultime rilevazioni Istat. Siccome perlopiù la crescita delle persone occupate interessa i dipendenti a termine (mentre risultano in diminuzione quelli a tempo indeterminato), la politica ha commentato gli ultimi dati ognuno portando acqua al proprio mulino. Dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi – con il solito riferimento al Jobs Act – al neoministro dello Sviluppo economico e Lavoro, Luigi Di Maio – per il quale il Jobs Act va invece rivisto perché crea troppa precarietà – il passo, insomma, è breve. Da un lato si può affermare che il Jobs Act ha fallito uno dei suoi obiettivi prioritari: restituire centralità ai contratti a tempo indeterminato. Dall’altro lato l’incremento di lavoro instabile non è conseguenza diretta del solo Jobs Act. Più verosimilmente, va considerata l’ipotesi che il mercato del lavoro, in generale, è in trasformazione (e l’Italia non fa eccezione in questo senso) e che numerose variabili concorrono a modificarne la fisionomia, oltre all’impianto normativo. Tra queste l’impatto tecnologico, la demografia, i flussi migratori.
In che modo sta cambiando il mercato del lavoro italiano? Per cominciare sgombriamo il campo dagli equivoci: gli occupati in Italia sono oltre 23 milioni, di cui i dipendenti quasi 18 milioni. Quelli permanenti sono poco meno di 15 milioni, quelli a tempo determinato quasi tre milioni. Tuttavia, nel confronto con dieci anni fa (prendiamo come mese di riferimento aprile, così da restare in linea con gli ultimi dati Istat), i primi sono cresciuti di 55 mila unità (da 14.818 a 14.873) e i secondi di 599 mila, passando da 2.374 a 2.973. In altre parole la dinamica si è cominciata a verificare da prima che entrasse in vigore il Jobs Act e di certo la commistione di crisi economica e altre variabili hanno reso più incerto il quadro, favorendo i contratti a termine (e a lungo anche altre tipologie contrattuali definite atipiche).
Un buon modo per capire se si tratta di un problema ormai tipico dell”Italia è proporre un confronto con il resto d’Europa. I dati Eurostat – risalgono al 2016 – collocano il nostro paese poco al di sotto della media europea (UE28). La quota di lavoratori 15-74 anni con contratto a tempo determinato si attesta in Europa al 14,2%, mentre in Italia è al 14%. La Germania è al 13,1%, ma altri paesi quali Finalndia (15,7), Francia (16,2), Svezia (16,7) e Paesi Bassi (20,9) si collocano sopra di noi, fino al picco di Spagna (26,1) e Polonia (27,3). La Grecia, che ha visto crollare i ilvelli occupazionali durante la crisi economica e gli anni di austerity, presenta valori più bassi dei nostri, a conferma delle diverse componenti che determinano un trend al rialzo o al ribasso.
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