Le attività lavorative del futuro? Oggi ancora non esistono
C’è uno studio, in particolare, che viene citato quando si parla di intelligenza artificiale, robot e automazione dei processi produttivi. È quello del World Economic Forum, presentato nel 2016, secondo cui a fronte di due milioni di posti di lavoro creati se ne perderanno sette milioni, per un saldo negativo di cinque milioni. E questo in un lasso di tempo piuttosto breve (anche se, è bene precisare, lo studio non addossa la responsabilità di tale stravolgimento alla sola tecnologia, altri fattori – quali la demografia e i flussi migratori – contribuiranno a ridefinire in maniera più o meno significativa il perimetro del mercato del lavoro). Pessimismo a parte – più volte abbiamo ricordato su queste pagine che altri studi e lo stesso World Economic Forum offrono al riguardo spunti diversi –, è giunto ora il momento di interrogarci se ci stiamo facendo le giuste domande nello sforzo di immaginare scenari e possibili soluzioni.
Quale futuro per le attività lavorative? Questa, tanto per cominciare, sarebbe una domanda opportuna. È probabile che le analisi sulle mansioni che «non spariranno» nonostante l’avvento della “quarta rivoluzione industriale” possano – presto o tardi – trovare smentite. Per la serie: nessuna indagine, anche la più ottimistica, può del tutto escludere l’eventualità che i lavori per cui oggi c’è molta richiesta (si pensi a quelli destinati alla cura della persona) domani saranno altrettanto necessari. Del tema se ne è discusso il 19 luglio al MAXXI di Roma con Giovanna Melandri, l’ex premier Paolo Gentiloni e il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, durante la presentazione del libro Il lavoro del futuro del giornalista del Sole 24 Ore, Luca De Biase. L’autore parte da una semplice, ma fondamentale considerazione: «Nella trasformazione tecnologica ed economica di questi anni, sul lavoro del futuro si addensa una nebbia che occorre diradare». Dunque, «verso quali studi conviene indirizzare i ragazzi?»; «come ci si aggiorna per mantenere vive le opportunità professionali?»; «e a difendersi dalle ingiustizie?»; «come si fanno valere il merito e l’integrità?»; «quali politiche si possono chiedere ai governanti che vogliono risolvere i problemi?».
Interrogativi che vale la pena esplorare. Perché a proposito di studi, di recente ancora il World Economic Forum sostiene che il 65% dei bambini che oggi frequentano le scuole elementari da adulto farà un mestiere che ad ora non esiste. Messa così la strada appare in salita, con le nuove generazioni impegnate in un percorso di studi che, con ogni probabilità, risulterà obsoleto in un futuro non molto lontano. «La risposta – è il parere di De Biase – sta nella capacità di interpretare e progettare le nostre competenze». Al momento, però, sembra esserci più incertezza che visione strategica. Tuttavia molte imprese (anche in Italia) stanno favorendo lo sviluppo di competenze tra i propri dipendenti, nel tentativo di ridurre le inefficienze. Secondo il sondaggio condotto dall’Osservatorio Industria 4.0 della School of Management del Politecnico di Milano Industria 4.0: Produrre, Migliorare, Innovare, il 50% delle imprese interpellate dichiara di aver concluso o avviato una valutazione delle competenze digitali e più di una su quattro (26%) ha intenzione di farlo in futuro. Dalle analisi emergono cinque principali competenze utili in chiave 4.0: applicazione lean manufacturing 4.0, gestione della supply chain digitale, cyber-security, manutenzione smart e relazione persona/macchina. Prevedere il futuro è logicamente impossibile, serviranno pertanto visione e pragmatismo – in un percorso che includa pubblico e privato, università e imprese – per riuscire a governare tale processo. E tornare a «progettare», costruire qualcosa di nuovo.