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Gli Stati Uniti a poche settimane dal voto di midterm

Le elezioni si terranno il 6 novembre. Democratici in lieve vantaggio secondo i sondaggi e gli appelli del presidente: una breve panoramica sull'America di Trump
di Fabio Germani

Manca poco meno di un mese alle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, un appuntamento fondamentale per la politica americana. In primo luogo perché rappresenta un termometro affidabile (ma non esaustivo) di quello che è il giudizio complessivo nei riguardi dell’amministrazione in carica, ma soprattutto perché si tratta di un voto che può ridisegnare la geografia del Congresso, ostacolando o rafforzando l’azione del presidente. Non a caso Donald Trump, nelle ultime settimane, ha battuto molto il tasto, arrivando addirittura a paventare ingerenze cinesi allo scopo di veder emergere i democratici ai danni dei repubblicani.

Alcune questioni tecniche, prima. Le midterm si terranno il 6 novembre, in palio ci sono i 435 seggi alla Camera (qui il mandato è biennale) e 33 – più due elezioni suppletive, che fanno 35 – dei 100 seggi al Senato, dove il mandato dura invece sei anni: per questo motivo ad ogni elezione si rinnova un terzo dell’Aula. Si voterà anche a livello locale in diversi Stati per le cariche di governatore, non una cosa di poco conto. Attualmente la maggioranza è repubblicana, i democratici dovrebbero ottenere qualcosa in più di 20 seggi per scalzare i rivali. Una missione che ad oggi non sembra impossibile: i candidati democratici sarebbero avanti nei sondaggi anche nei collegi ritenuti in bilico (l’ultimo sondaggio Washington Post-Schar School registra un 50-46 a favore dei democratici). Trump, le cui politiche sono di solito controverse e molto dibattute, vorrebbe evitare lo status di anatra zoppa in quanto privo di maggioranza al Congresso, anche se la definizione non è qui del tutto corretta perché indicherebbe piuttosto il periodo di transizione che passa tra l’elezione del nuovo presidente a novembre e l’effettivo insediamento di quest’ultimo a gennaio.

COME L’AMERICA SI PRESENTA AL VOTO DI MIDTERM
Forse è opportuno precisare: come l’America di Trump si presenta al voto di midterm. E per spiegare a quale America di Trump è giusto fare riferimento, è per il momento sufficiente considerare che la campagna elettorale è incentrata parecchio sulle questioni interne (quali sanità, istruzione, armi, immigrazione) e relativamente poco sui grandi temi internazionali, dalle relazioni più distese con la Corea del Nord alla guerra dei dazi con la Cina, dalle tensioni con l’Iran fino alle recenti scaramucce con l’Unione europea e al Russiagate che ancora interessa molto da vicino l’inquilino della Casa Bianca e le persone del suo staff nel periodo elettorale. E anche le dimissioni di Nikki Haley da ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite – notizia abbastanza fresca – non è un tema prioritario (salvo sorprese) in vista dell’imminente appuntamento elettorale. I repubblicani – non contando ora i sondaggi – arrivano alle elezioni di metà mandato “forti” di alcuni successi recenti per l’amministrazione. Due su tutti. Il primo: la rinegoziazione (a vantaggio degli Usa) del trattato di libero scambio con Messico e Canada (il nuovo Nafta che prevede, tra le altre, la produzione di auto di cui il 75% dei componenti dovrà essere di origine nordamericana e salari a 16 dollari l’ora, il che obbligherà le compagnie automobilistiche ad adeguare i parametri anche negli stabilimenti in Messico oppure a mantenere la produzione entro i confini statunitensi). Il secondo: la nomina di Brett Kavanaugh a giudice della Corte Suprema, nonostante i guai emersi dopo le accuse di molestie sessuali da parte di alcune donne per fatti risalenti a diversi anni fa. Attenzione, però: il nuovo Nafta dovrà passare per l’ok del Congresso e con le elezioni alle porte l’esito non è così scontato. In ogni caso sono entrambe vittorie importanti per Trump, in grado di rafforzare la sua base elettorale. Altro tassello fondamentale, i dati positivi che giungono dal mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione si è attestato a settembre al 3,7%, ai minimi dal 1969 e in calo rispetto al 3,9% di agosto. Anche se va precisato che il mercato del lavoro in America nasconde sempre molte insidie, pure al cospetto di una disoccupazione quasi azzerata. Per rendere l’idea: il tasso di partecipazione alla forza lavoro (indicatore che riguarda tanto chi ha un impiego quanto chi è in cerca) resta invariato al 62,7%, in miglioramento rispetto agli anni della crisi, ma su livelli tra i più bassi dalla fine degli anni settanta. In più non convince granché il ritmo di crescita dei salari, giudicato ancora lento.

GLI AMERICANI E IL VOTO
Non deve stupire se i democratici stanno pungolando le minoranze, di solito inclini a votare per loro, per convincerle a recarsi alle urne il 6 novembre (da segnalare, poi, l’impegno costante dell’ex presidente Barack Obama). C’è anche da considerare che, proprio tra le file democratiche, si stanno facendo largo – vincendo clamorosamente le primarie – candidati giovani, progressisti e talvolta appartenenti alle minoranze. Il caso più famoso, neanche a dirlo, è quello di Alexandria Ocasio-Cortes, 28enne di origini portoricane nata nel Bronx, già sostenitrice di Bernie Sanders, capace di battere alle primarie del 14esimo distretto di New York un politico esperto e molto influente nel partito come Joe Crowley. Non deve stupire neppure che il presidente in persona – Donald Trump – abbia pubblicato un editoriale su Usa Today per attaccare i democratici, accusandoli di essere dei socialisti che vogliono introdurre un sistema sanitario di tipo universale (modello Sanders, nel 2016) che però recherebbe danni all’economia statunitense. È molto probabile che, nel bene e nel male, proprio Trump sarà decisivo per l’esito del voto. Secondo un’indagine condotta dal Pew Research Center a settembre e diffusa a inizio ottobre, la grande maggioranza degli elettori registrati che sostengono i candidati democratici (85%) ritiene che sia responsabilità del governo federale assicurarsi che tutti gli americani abbiano una copertura sanitaria. La quota di chi la pensa allo stesso modo scende drasticamente tra gli elettori repubblicani (24%). Cambiano le percentuali, ma su altri temi il trend è più o meno lo stesso: quanti credono che il paese debba fare di più per garantire pari diritti alle minoranze e in particolare ai neri rispetto ai bianchi sono soprattutto elettori democratici, di contro la riforma fiscale convince tanto di più gli elettori repubblicani. Sull’immigrazione entrambe le parti sostengono in quote significative che migliorare la sicurezza delle frontiere e contestualmente creare un sistema che permetta a chi è in America illegalmente di diventare un cittadino se rispetta determinati requisiti siano delle priorità, nonostante la netta differenza di coloro che la pensano solo in un modo o nell’altro: gli elettori repubblicani propendono maggiormente per la prima istanza, quelli democratici per la seconda. Le diversità di vedute emergono anche per quanto riguarda l’introduzione di nuove tariffe sui prodotti importati e sulle tasse. In quest’ultimo caso molto dipende anche dalla disponibilità economica delle famiglie: al diminuire del reddito familiare aumenta il grado di disapprovazione nei confronti della riforma voluta dall’amministrazione Trump.

@fabiogermani

 

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