I centri per l’impiego e i divari Nord-Sud
Mentre scriviamo il governo è alle prese con le ultime limature – in alcuni casi, da quanto se ne sa, veri e prorpri nodi da sciogliere che contrappongono le posizioni dei due azionisti di maggioranza dell’esecutivo, M5S e Lega – del Documento programmatico di bilancio, ovvero il documento che di fatto “presenta” la manovra e che dovrà essere inviato entro stasera, 15 ottobre. Tra le misure di cui si discute da più tempo – cavallo di battaglia del M5S – c’è anche il reddito di cittadinanza, su cui è intervenuto domenica il premier Giuseppe Conte alla quarta edizione della scuola di formazione politica della Lega, spiegando che avverrà – riferendosi alle offerte di lavoro – «sulla base della distribuzione geografica», cioè sul modello tedesco. Prima di addentrarci sui numeri, bisogna superare qualche passaggio.
Molti osservatori ritengono i centri per l’impiego elementi determinanti per rendere il reddito di cittadinanza una misura di sostegno, ma non per questo di tipo assistenziale, per chi vive in condizioni di difficoltà economica, magari dovuta alla perdita del lavoro. In pratica i Cpi dovranno proporre le offerte di lavoro ai beneficiari del sussidio. C’è solo un problema, certamente di non poco conto, stando ai dati riportati da Repubblica: i centri per l’impiego sono 556 con ottomila dipendenti, «senza collegamenti tra di loro e senza coordinamento». In cifre: su due milioni di richieste i posti di lavoro trovati risultano essere 37 mila. In aggiunta il Sole 24 Ore riporta che «nella rete dei Cpi, la metà ha dotazioni informatiche insufficienti (il 72% nel Sud e nelle Isole), per gli organici c’è un problema quantitativo e qualitativo: molti dei 7.934 dipendenti (contro i 98.739 addetti della Germania, i 74.080 del Regno Unito, i 54mila della Francia e gli 8.945 della Spagna), per effetto del blocco del turn over hanno un’età avanzata, una scarsa dimestichezza con il digitale, sono abituati a svolgere compiti puramente burocratici – complici le scelte dei governi che hanno privilegiato gli investimenti per le politiche passive –, non hanno avuto la formazione necessaria per rispondere alle nuove sfide delle politiche attive». Il timore, insomma, è che le strutture non siano pronte.
In più bisogna risolvere due questioni, strettamente legate tra loro. E qui entra in gioco la geografia, di cui ha parlato il presidente del Consiglio. Detta nei minimi termini, si prospettano due velocità considerato che esiste un divario di offerte tra Nord e Sud, mentre proprio nel Mezzogiorno si registrano i livelli disoccupazione e le differenze di condizioni lavorative più elevate che nel resto del paese. Come le Regioni possano al limite superare tali ostacoli è altra questione da capire, dato che – guardando alla Germania – in materia i Land hanno poteri più ampi.
Per dare la misura di cosa stiamo parlando arrivano in nostro soccorso, al solito, i numeri. Senza andare troppo indietro nel tempo, possiamo soffermarci ai dati Istat diffusi a settembre relativi al secondo trimestre dell’anno. Nella seconda parte del 2018 il tasso di occupazione si è attestato al 59,1%, con il picco del Nord al 67,7%. Al Centro si è collocato al 63,7%, ma nel Mezzogiorno si è registrato un valore pari al 45,3%. Ancora più basso tra le donne, al 33,7%. Se il tasso di disoccupazione generale è risultato essere al 10,7%, al Nord è stato decisamente inferiore alla media nazionale: 6,5%. Al Mezzogiorno il livello ha raggiunto il 18,4%, che è addirittura il 21% nella componente femminile.
[…] recente alcune inchieste giornalistiche hanno messo in risalto i ritardi di tali strutture. Tutte questioni che andranno affrontate per rendere efficienti i servizi. Anche perché – rileva […]