Elezioni midterm, le ultime dagli Stati Uniti
L’America si prepara al voto di metà mandato del 6 novembre. L’importanza dell’appuntamento elettorale è data da alcuni elementi, che rappresentano una sorta di novità rispetto al passato. Storicamente, infatti, la difficoltà dei partiti – repubblicani e democratici – è convincere la base elettorale ad andare a votare (questo, di norma, vale a maggior ragione per i democratici). Stavolta le cose potrebbero andare diversamente: risultano essere già oltre 20 milioni gli elettori che hanno votato in anticipo, di persona o per posta, segnando un record per questo tipo di procedura. Sono dati che fanno pensare ad una partecipazione piuttosto alta anche nell’election day di martedì. L’altro elemento che non può lasciare indifferenti è la spesa per le elezioni, circa cinque miliardi di dollari impegnati da candidati, partiti e comitati elettorali: una cifra che si colloca al top nella storia statunitense per un voto midterm.
Cosa spiegano, messi insieme, questi elementi? Probabilmente è la conferma che il voto in programma tra poche ore venga considerato, mai come in passato, un referendum sul presidente in carica (e sullo sfondo ci sono le presidenziali 2020, con Donald Trump che mira ad un secondo mandato). Insomma, non stupisce troppo l’attivismo dell’attuale inquilino della Casa Bianca, alle prese con un autentico tour de force nel weekend pre-voto, tra comizi e sostegno sparso ai candidati repubblicani, in molti casi suoi emuli.
COSA DICONO I SONDAGGI
Rispetto alle settimane scorse, gli scenari dettati dai sondaggi non sono mutati tantissimo. Quello considerato più probabile prevede che i democratici riescano a strappare la Camera ai repubblicani (per una manciata di voti, intanto nelle rilevazioni generali diffuse da Washington Post e ABC News i democratici sono avanti di “appena” sette punti), mentre al Senato la maggioranza potrebbe restare in mano al Gop (qui la spiegazione di numeri e composizione del Congresso che verrà presto rinnovato). Ma c’è chi avverte che le cose – diretta conseguenza dell’imprevedibilità del trumpismo, nel bene e nel male – potrebbero andare molto diversamente da come ci si aspetta alla vigilia. Non è così scontato, dunque, che i repubblicani si confermino al Senato, ma non è detto neppure che i democratici riescano alla fine a conquistare la Camera.
LA SFIDA NELLA SFIDA
Queste ultime giornate di campagna elettorale sono state caratterizzate dalla sfida a distanza tra presidenti – quello in carica Donald Trump e l’ex Barack Obama –, entrambi impegnati in vari angoli degli Stati Uniti allo scopo di convincere gli elettori a recarsi alle urne e che votare per la propria parte è da considerarsi, in ogni caso, la scelta giusta. Ma al di là della retorica più scontata, la strategia di Trump è stata incentrata soprattutto sul tema immigrazione, suo grande cavallo di battaglia. Migliaia di soldati sono stati inviati al confine con il Messico in attesa della carovana dei migranti provenienti dall’Honduras e si contano alla frontiera anche civili armati che avrebbero così risposto agli appelli del presidente contro la presunta invasione di immigrati. A proposito di immigrazione, Trump ha poi alzato l’asticella diffondendo via Twitter il video di un cittadino messicano deportato e tornato in Usa per essere condannato per l’uccisione di due poliziotti – tutto ciò avveniva pochi giorni dopo la strage di Pittsburgh (11 morti in una sinagoga a fine ottobre), avvenimento fortemente condannato dal presidente –, accusando i democratici di averlo fatto entrare e paventando situazioni analoghe in caso di una loro vittoria elettorale. Uno “spot” che non è piaciuto (a moltissimi, non necessariamente tra le file democratiche) e che ha alimentato diverse polemiche. Sul fronte della politica estera ha fatto molto discutere l’annuncio delle nuove sanzioni all’Iran («Sanctions are coming», stanno arrivando) tramite una locandina girata sui social in stile Trono di Spade. E l’economia, non doveva essere la questione più importante? In effetti lo sarebbe, ma nella logica di Trump gli ultimi dati sono così positivi da non ritenere opportuni ulteriori interventi in materia, meglio insistere sulle faccende che compattano la base elettorale. I numeri sul lavoro in particolare (una questione tuttavia più complessa, come abbiamo già visto) hanno registrato nel mese di ottobre un incremento di 250 mila nuovi posti, disoccupazione da tempo ai minimi e salari in aumento del 3,1%. È su questo terreno che si è fatto sentire Obama, attribuendo i meriti dell’economia in salute alla sua amministrazione. «Quando sono arrivato alla Casa Bianca ho dovuto risolvere i problemi che ci avevano lasciato. Dove pensate sia iniziato tutto questo, chi pensate l’abbia fatto?», ha chiesto, tra gli applausi, l’ex presidente parlando a Chicago.
I CASI GEORGIA E FLORIDA
Non solo Chicago. Obama è stato in Indiana per fare campagna insieme al controverso senatore Joe Donnelly (controverso perché “reo” di essere troppo in linea su alcuni spunti con Trump, tipo l’immigrazione, ma è anche un sostenitore dell’Obamacare) e in Florida per l’endorsement al candidato democratico, Andrew Gillum. Proprio la Florida (con la Georgia, abbiamo avuto modo di sottolineare) è uno degli Stati da osservare con attenzione, per il tipo di aspiranti governatori che democratici e repubblicani presentano. In Florida è intervenuto Trump in persona definendo Gillum «un ladro» a causa dei recenti casi di corruzione emersi a Tallahassee, dove l’esponente democratico è sindaco. Netta la risposta di Gillum: «Ha ragione mia nonna: mai degradarsi a lottare con un maiale. Vi sporcate tutti e due, ma lui ci prende gusto». Vale la pena ricordare che tra Gillum e Ron DeSantis (il candidato repubblicano) erano già volate parole grosse, comprese accuse di razzismo. I sondaggi in Florida continuano a dare in vantaggio Gillum. In Georgia, invece, dopo che alcune organizzazioni vicine alla candidata democratica Stacey Abrams hanno denunciato non pochi problemi con le registrazioni di voto, procedure che dipendono dall’ufficio del segretario di Stato nonché candidato repubblicano Brian Kemp, la questione è stata rigirata da quest’ultimo che ha annunciato di aver aperto un’indagine nei confronti del Partito democratico «per aver tentato di hackerare il sistema di registrazione del voto». Qui i sondaggi premiano Kemp.
IL VOTO: COSA SI ASPETTANO GLI AMERICANI (E L’INCOGNITA GIOVANI)
L’accusa di Kemp ai democratici diventa un pretesto per curiosare tra le opinioni degli americani in merito alla sicurezza informatica in vista del voto. Due anni dopo che Mosca ha interferito con le elezioni presidenziali del 2016, stando alle ultime rilevazioni del Pew Research Center emerge che il 67% degli intervistati afferma che è molto o abbastanza probabile che la Russia o altri governi stranieri cercheranno di influenzare le elezioni di metà mandato. Meno della metà (45%) si dichiara molto o abbastanza fiduciosa che i sistemi elettorali siano sicuri dalle attività di possibili hacker, ma solo l’8% afferma di esserlo “molto”. In generale i cittadini statunitensi non si attendono particolari difficoltà nelle operazioni di voto. I giovani – non una scoperta di oggi, in realtà – sono i meno propensi a votare alle elezioni, in particolare proprio alle mideterm. Sono più scettici rispetto agli anziani riguardo al fatto che il voto dia voce alle persone nelle scelte di amministrazione nel paese. Perciò sono coloro che, pur ritenendolo importante, mantengono dei dubbi in quote superiori e solo il 50% degli adulti con meno di 30 anni lo definiscono utile. È di gran lunga la percentuale più bassa tra le fasce di età analizzate, se consideriamo il 70% registrato tra i 30-49enni (all’aumentare dell’età cresce la considerazione del voto). Se convinti a recarsi alle urne, che siano i giovani, allora, l’ago della bilancia alle imminenti elezioni americane?
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