Volti nuovi e prime volte, l’America dopo il voto di midterm | T-Mag | il magazine di Tecnè

Volti nuovi e prime volte, l’America dopo il voto di midterm

Congresso spaccato: Camera ai democratici, Senato ai repubblicani. Dalla sociologia del voto emerge un paese diviso. Ma Trump dice che è un successo (e in parte ha ragione)
di Fabio Germani

Come da pronostico: la Camera va ai democratici, il Senato resta ai repubblicani (che riescono a rafforzare la maggioranza). Nelle versione sintetica di quello che è l’esito delle elezioni midterm di martedì 6 novembre emerge un’America spaccata, praticamente divisa in elettori pro e anti-Trump (molti osservatori, già alla vigilia, avevano definito questo voto un referendum sul presidente in carica, specialmente sulle questioni domestiche), con un certo grado di polarizzazione, considerate le storie e le idee politiche dei nuovi eletti, da una parte e dall’altra. Affluenza record, ma “l’onda blu” che qualcuno aveva ipotizzato nelle scorse settimane (blu è il colore del Partito democratico) è stata molto più contenuta rispetto alle attese. Dato importante: sarà il Congresso più al femminile della storia statunitense, tante sono le rappresentanti elette soprattutto tra i democratici.

La prima reazione del presidente Donald Trump si è consumata con toni trionfalistici: «Un successo». Dal suo punto di vista mantenere il Senato a maggioranza repubblicana può essere definita una vittoria, anche personale, per una lunga serie di ragioni. Va ricordato che in palio c’erano i 435 seggi alla Camera (qui il mandato è biennale) e 33 – più due elezioni suppletive, che fanno 35 – dei 100 seggi al Senato, dove il mandato dura invece sei anni. Per il Senato si è votato in alcuni degli Stati che avevano visto il presidente avere la meglio su Hillary Clinton già nel 2016, dunque il voto di martedì conferma che il trumpismo ha ancora presa in quella che potremmo ormai considerare la sua base elettorale di riferimento. Due piacevoli sorprese per lui, poi, sono arrivate da due Stati importanti quali la Florida e l’Indiana (che analizzeremo tra poco). Un altro aspetto che farà sentire Trump al sicuro è che il Senato sarà in grado di bloccare qualsiasi, eventuale iniziativa democratica alla Camera allo scopo di indebolire l’inquilino della Casa Bianca, a partire dalla procedura di impeachment – gesto politico slegato dalle inchieste giudiziarie, come quella che sta conducendo il procuratore Mueller sul Russiagate – che i deputati possono far scattare con un voto a maggioranza semplice e di cui si è parlato durante la campagna elettorale. Nell’altro ramo del Congresso, però, servono appunto i due terzi per condannarlo, il che complicherebbe non poco i piani se verranno messi in pratica. È vero che la Camera, adesso, potrà condizionare la politica interna dell’amministrazione, ma è al Senato, ad esempio, che resta il controllo sulle nomine per determinate cariche, mentre in politica estera il presidente ha carta bianca (o quasi). Ed è qui, verosimilmente, che da oggi si concentrerà l’operato di Trump (comprese le prossime scelte sulle politiche commerciali).

I CASI INDIANA E FLORIDA
In Indiana ha vinto il repubblicano Mike Brown ai danni del senatore democratico in cerca di conferme Joe Donelly, per il quale pochi giorni fa si era speso in prima persona l’ex presidente Barack Obama. Donnelly viene considerato un personaggio ambiguo, in linea con Trump su alcune questioni (immigrazione su tutte), ma sostenitore dell’Obamacare. Cosa è accaduto? Secondo i primi exit poll della CNN, rispetto al 2012, a “tradire” i democratici e nello specifico Donnelly sono stati gli uomini, quelli non laureati e che guadagnano al di sotto dei 50 mila dollari. In Florida il governatore uscente Rick Scott, stavolta in corsa per il Senato, ha battuto il democratico Bill Nelson, nonostante quest’ultimo fosse leggermente favorito, essendo stato eletto sei anni fa con il 55% dei voti. Nelson ha perso consensi tra gli over 45, in maggioranza uomini bianchi non laureati. Sempre in Florida era molto interessante la sfida tra aspiranti governatori. Il favorito, sondaggi alla mano, Andrew Gillum (sindaco afroamericano di Tallahassee), ha perso per una manciata di voti contro il repubblicano emulo di Trump nonché ex rappresentante alla Camera, Ron DeSantis. Due esiti – le vittorie di Scott e DeSantis in quello che da sempre viene considerato uno Stato in bilico – che devono suonare come un campanello d’allarme per i democratici in vista delle presidenziali 2020.

ALTRI CASI, IN ORDINE SPARSO
Prosegue la “fiaba” di Alexandria Ocasio-Cortes, la 29enne di origini portoricane nata nel Bronx, già sostenitrice di Bernie Sanders, capace di battere alle primarie del 14esimo distretto di New York un politico esperto e molto influente nel Partito democratico come Joe Crowley. È la più giovane deputata di sempre, la sua vittoria non stupisce, ma è comunque una notizia (anche perché è andata decisamente meglio di quanto ottenuto da Crowley in precedenza). Rashida Tlaib, eletta in Michigan con i democratici, è invece la prima deputata musulmana. Sharice Davids, in Kansas, è la prima rappresentante alla Camera appartenente a una tribù di nativi americani (anche lei democratica). Al contrario, in Texas (un feudo repubblicano a partire dagli anni ’80), Beto O’Rourke, astro nascente democratico, non è riuscito a imporsi su Ted Cruz nella corsa al Senato, nonostante l’endorsement dell’ultimo minuto di una star quale Beyoncé (che ricordiamo essere di Houston). O’Rourke ha perso di poco, la sua campagna ha avuto una vastissima copertura mediatica e molti già lo ritengono un possibile candidato alle presidenziali del 2020. Tutto secondo copione anche negli Stati presi a riferimento per le particolari storie delle candidate governatrici: Lupe Valdez in Texas non è riuscita a strappare la carica all’uscente Gregg Abbott, nel Vermont – dove Bernie Sanders si conferma senatore, ma con un consenso leggermente inferiore – niente da fare per Christine Hallquist (sarebbe stata la prima transgender a guidare uno Stato americano), mentre in Georgia il nuovo governatore è Brian Kemp, che ha superato di poco la candidata afroamericana Stacey Abrams sulla quale in tanti avevano riposto fiducia sebbene i sondaggi non le siano sempre stati favorevoli. In Georgia, però, non sono mancate le polemiche per via di presunte procedure scorrette (ne abbiamo parlato qui e qui) emerse nei giorni che hanno anticipato il voto. Eletto in Colorado il primo candidato (dem) apertamente gay a ricoprire l’incarico di governatore, Jared Polis.

LA SOCIOLOGIA DEL VOTO, IN BREVE
In conclusione non è facile stabilire con assoluta certezza chi, tra i democratici e i repubblicani, ha vinto la contesa elettorale. Ad ogni modo per farsi un’idea del sentiment americano, la sociologia del voto può venire in soccorso. Si era detto che gli elettori più giovani – di solito poco propensi a partecipare al voto di metà mandato – potessero essere l’ago della bilancia. Lo sono stati, invece, in un modo non particolarmente influente. Fatto sta, però, che a livello nazionale il 16% degli elettori che martedì ha votato per la prima volta alle midterm, si è espresso nel 61% dei casi a favore dei democratici e solo nel 36% per i repubblicani (exit poll di NBC News). Stando agli exit poll della CNN, la trama del paese diviso a metà si spiega anche con il grado di approvazione nei confronti di Trump. Si passa dal valore più basso (33% in California, dove non a caso il nuovo governatore è Gavin Newsom, uno che ha promesso opposizione massiccia al presidente) alla media nazionale (44%) per arrivare al valore più alto, che si attesta al 63% nel West Virginia. Secondo il sondaggio misure come la riforma fiscale o la rinegoziazione del nuovo Nafta non hanno avuto un impatto significativo sulle finanze personali o nell’economia dell’area in cui si risiede per molti degli intervistati. In materia d’immigrazione, le opinioni sono parecchio contrastanti: la metà ritiene le politiche dell’amministrazione troppo severe, circa un terzo le reputa giuste, il 15% pensa che non siano abbastanza dure.

E ADESSO?
Per un presidente perdere la Camera (se non l’intero Congresso) a metà mandato è, spesso, fisiologico. Adesso ci attendono due anni di permanent campaign, anche più di quanto rilevato nella prima parte di presidenza Trump. La Camera a maggioranza democratica potrà frenare molte delle iniziative del presidente, il quale a sua volta potrà compattare la base elettorale proprio in virtù di questo, chiedendo da subito di rafforzare la sua posizione nel 2020. Uno scossone, reale, potrebbe giungere semmai dall’inchiesta del procuratore Mueller, ma è tutto ancora da verificare. Le elezioni midterm rappresentano una fotografia del momento, ma non necessariamente un’anticipazione di quello che potrà accadere alle successive presidenziali, dunque attenzione ad affrettare le conclusioni. La curiosità, a partire da oggi, sarà osservare le prossime mosse di Trump in politica estera. Il recente ripristino delle sanzioni economiche all’Iran è solo un assaggio.

@fabiogermani

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1 Commento per “Volti nuovi e prime volte, l’America dopo il voto di midterm”

  1. […] un fatto per certi versi inedito per la politica americana, definirà i flussi di voto. Qualcosa si è vista alle elezioni di metà mandato, in cui hanno conquistato seggi al Congresso candidati molto “trumpiani” tra i repubblicani e […]

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