Quota 100, turnover e giovani: l’impatto sul mercato del lavoro
Quota 100 è una delle misure cardine della manovra appena approvata (l’altra è il reddito di cittadinanza), anche se i dettagli dell’impianto non si conoscono ancora del tutto, in attesa dei decreti attuativi. Quello che si sa, però, è che la volontà del governo non è solo quella di alleggerire i requisiti per accedere alla pensione, ma anche favorire l’occupazione giovanile tramite il turnover.
Sul tema esistono diverse scuole di pensiero, ma in generale si registra una lieve tendenza al pessimismo. Per dirla altrimenti: non c’è esperienza, né passata né più recente, che dia conferma certa di un meccanismo automatico tra le due fasi, di uscita ed entrata dal lavoro. La ragione di fondo che alimenterebbe tale convinzione sta nel fatto che dare per scontato che un lavoratore giovane possa sostituirne uno anziano, significa al tempo stesso dare per scontato che i posti di lavoro non mutino, restino fissi, pronti ad accogliere i candidati più idonei quando necessario. Sono molte, invece, le variabili che concorrono a modificare i livelli occupazionali di volta in volta.
Ovviamente la regola non vale sempre. Nei posti apicali, soprattutto nelle grandi società, un ricambio generazionale è spesso una mossa opportuna, proprio perché equivale a mettere a sistema energie fresche e nuove competenze. Quando ciò non si verifica è perché evidentemente le strategie aziendali vanno in tutt’altra direzione e quella posizione (se non l’intera area di riferimento) viene ormai giudicata obsoleta al di là delle caratteristiche anagrafiche di chi la occupa, senza dimenticare l’introduzione nei processi produttivi dell’intelligenza artificiale, software e robot che andranno a sostituire in un futuro ormai imminente determinate mansioni e professioni.
Tuttavia può rivelarsi un errore pensare anche che i giovani siano necessariamente in possesso di maggiori competenze rispetto ai lavoratori più in là con gli anni, specie quelli over 50. Sebbene i livelli di istruzione – anche qui, è bene precisare, si fanno ipotesi per linee generali e comunque i dati ci dicono che le opportunità per i giovani crescono all’aumentare del valore del titolo di studio – siano in effetti superiori al punto da renderli certamente più appetibili, l’esperienza maturata sul campo rimane una skill tenuta molto in considerazione in specifici ambiti di lavoro.
Più banalmente, un mercato del lavoro, per essere definito “in salute”, dovrebbe mostrare dei trend al rialzo in tutte le fasce di età. Svezia, Danimarca, Germania e Regno Unito, ad esempio, sono paesi che registrano dinamiche positive in tutte le classi: 15-24 anni, 25-54 anni e 55-64 anni.
(fonte: Eurostat)
Ma anche questo, preso da solo, è un dato che spiega molto poco dell’evoluzione del mercato del lavoro. Occorre ricordare un recente studio del World Economic Forum secondo cui il 65% dei bambini che oggi frequentano le scuole elementari, da adulto farà un mestiere che ad ora non esiste. Motivo che dovrebbe spingere i governi ad una riflessione di più ampio respiro, in termini di investimenti e risorse da destinare alle politiche attive.
Ma è opportuno ricordare ancora un aspetto. In Italia, nel 2017, la crescita del tasso di occupazione 15-64 anni ha riguardato tutti i titoli di studio, ma è stato più robusto per i laureati (+0,7 punti), ampliando così i già elevati divari tra i livelli di istruzione (dati Istat). Il tasso di occupazione, infatti, è passato dal 30,1% di chi possiede al massimo la licenza elementare al 78,3% per i laureati. Il vantaggio di chi ha raggiunto il livello di istruzione più elevato è stato osservato in tutte le fasce di età e in particolare tra i 45 e i 54 anni l’indicatore per i laureati supera il 90%. Solo per i giovani sotto ai 25 anni il tasso di occupazione è lievemente più alto tra i diplomati, per via dell’ingresso più tardivo nel mercato del lavoro di chi ha prolungato gli studi.