La crisi della comunicazione di crisi
C’è una crisi reale quando i soggetti coinvolti la negano. La fase dell’allarme, della paura e della conseguente immobilità è stata nella storia fatale a molti protagonisti di crisi più o meno profonde. La difficoltà in casi del genere però non è nel reagire alla dimensione del problema, ma nell’ammetterne i segnali.
Provocatoriamente si potrebbe dire che un esempio straordinario di comunicazione di crisi è nel Vangelo, laddove gli apostoli riconoscono il Cristo risorto. Si trovano di fronte a un evento straordinario al punto da essere allarmante. E nell’affrontarlo non lo misurano, ma semplicemente lo “riconoscono”. E in quel termine, “riconoscono”, c’è tutta la teoria che serve a questa materia: perché non c’è crisi e relativa necessità di comunicazione appropriata solo quando si affrontano problemi, ma anche quando ci si misura con successi e giubili inaspettati.
La comunicazione di crisi ha il compito di trasmettere lucidità di fronte al caos, e di comunicare una reazione razionale: “riconoscere” una crisi è il primo fondamentale passo per superarla. Ma come dicevamo questa è solo la teoria e la storia insegna quanto sia difficile mettere in pratica il principio.
I fatti sono ben diversi e dicono che le crisi sono generalmente affrontate sempre nel peggiore dei modi. Il panico e l’immobilità fanno da padrone, e la legge di Murphy coi relativi postulati ha troppo spesso buon gioco. L’esempio tipico è quello delle crisi diplomatiche e dei conseguenti conflitti: è quello il momento esatto in cui una buona comunicazione di crisi si dovrebbe preoccupare di smentire Hiram Johnson, lo stesso che nel 1917, in pieno conflitto, disse: “Quando scoppia una guerra, la prima vittima è la verità”.
Ma gli esempi non mancano, e non solo nel primo conflitto mondiale. Negazioni e menzogne sono sempre state le costanti di ogni crisi internazionale che non si sia potuta risolvere per il meglio, ad esempio scongiurando guerre e sofferenze. Churchill aveva ben chiaro il fenomeno ed era convinto che nessun problema può esser risolto congelandolo, un principio che suona altissimo, ma che pure bisogna ammettere stona con il profilo di uno statista che ha vinto una guerra e subito dopo ha perso le elezioni. A dimostrazione ulteriore di quanto sia difficile il passo tra il dire e il fare.
E ancora si potrà dire che è impressa nella memoria di molti la figura di quel ministro iracheno, di cui è pietoso tacere anche il nome, che – con Baghdad già in fiamme – utilizzava la tv di stato per rassicurare i cittadini della prossima vittoria sull’invasore americano, indicando quanto possa essere inutile comunicare se non ha idea di cosa dire.
Allo stesso modo salta agli occhi quanti e vari esempi possano farsi anche in ambito nazionale, in occasione di crisi politiche o più semplicemente d’immagine. La negazione e la manovra diversiva rappresentano la strategia comune e trasversale. E a guardare i risultati, è quella sbagliata.
Solo pochi giorni fa Giuliano Ferrara, indicato da un insistente tam tam come l’estensore di almeno buona parte della missiva firmata da Silvio Berlusconi pubblicata dal Corriere della sera, ha vergato sul tema poche ma lapidarie righe su questo tema: «Se non si controlla lo spin, cioè la comunicazione dell’agenda politica di un uomo di stato, governare non diventa impossibile, diventa inutile». Parole dure, da crisi.
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