La crisi della felicità
Forse la crisi del nostro tempo nasce da un deficit di felicità; o forse dal razionalismo deviato che ha spento l’illuminismo; oppure dall’errore fatale di credere che la tecnologia potesse rendere comunque gli uomini più liberi, più felici ed autosufficienti a se stessi.
Se per un verso la razionalità formale, a lungo, ha rappresentato il sorgere di un sapere nuovo, soppiantando lo sforzo religioso di dare un senso al mondo nello stesso modo in cui questo aveva sostituito l’originaria concezione magica, per l’altro ha trasformato il sogno di governare i sentimenti disorganizzati degli uomini attraverso sincronie tecnologiche in un incubo angosciante.
Attraverso il suo “assolutizzarsi” ed estraniarsi dall’uomo, la tecnologia si è trasformata in un desiderio cieco, disposto a saltare i nessi causali e a ignorare i più solenni impegni morali. Si sono enunciate proposizioni astratte, generiche, tautologiche che nessuno ha mai pensato veramente di rispettare. La prima, quella più solenne, spegnere la televisione e accendere i desideri (cioè meno tv e più relazioni), si è subito infranta lungo i frangiflutti di rituali, simboli di appartenenza, abitudini, che estraniano chi ne è estraneo.