Essere Luis Enrique, l’uomo del “progetto”
Tutto e il contrario di tutto. Per poi fare ancora qualcosa di diverso, se possibile. Questo Luis Enrique. O meglio, questi alcuni frammenti sparsi della sua personalità, emersi nei primi quattro mesi “italiani”, alla guida tecnica della Roma.
Asturiano nell’indole, catalano nel calcio, innovativo nella mentalità, è arrivato nella Capitale come portatore sano del gioco di un Barcellona divertente e soprattutto vincente, in Spagna e in Europa. Quel che si è dimostrato non solo è praticamente impossibile descriverlo, ma anche decifrarlo. Perché del progetto, anzi dell’idea, per utilizzare le parole del dg giallorosso Franco Baldini, si è persa talmente traccia, da domandarsi se mai fosse esistita. E questo dopo sole quindici giornate di campionato e un’Europa League lasciata ancor prima dell’antipasto. A spaventare non sono la mancanza di punti o la totale assenza di obiettivi a breve e lungo termine, ma la schizofrenia di una squadra della quale non preoccupa la latitanza di una personalità, ma la presenza di multiple. Simili a quelle del suo allenatore. Asturiano, catalano, innovativo.
Una storia controcorrente. Per capire Luis Enrique bisogna prendere in considerazione alcuni mesi precisi della sua vita. Non quelli che lo hanno visto calcare gli stadi più importanti del mondo, tra l’altro passando con la nochalance dei vincenti dalla camiseta blanca del Real Madrid, a quella blaugrana del Barcellona. Nemmeno quelli estivi, caldissimi, del mondiale americano, quando al termine del quarto di finale contro l’Italia, con i tamponi ancora nel naso per la gomitata di Tassotti, si chiuse nel pullman azzurro, da solo, per regolare i conti. E nemmeno quelli del 2011, quando all’apice della sua carriera come tecnico, decise di lasciare il Barcellona B, trasformato nel migliore di sempre, perché deluso dalla possibilità negata di arrivare in prima squadra.
Dobbiamo prendere in considerazione il periodo di mezzo: quattro anni, dal 2004 al 2008, durante i quali Luis Enrique si dedica completamente a se stesso. Lasciato il calcio e la fatica degli allenamenti, si trasferisce con la famiglia in Australia per praticare il surf. Si allena alla maratona, partecipa al “Quebrantaheusos”, letteralmente “Spacca ossa”: una corsa in moto di 205 chilometri da coprire in sei ore. Ha voglia di sperimentarsi, capire chi è e dove può arrivare. E proprio mentre taglia a Firenze taglia il traguardo di una delle prove del Triathlon, gli arriva la “chiamata” del Barca.
Il rapporto con la squadra e i media. Rispettoso del lavoro, seppur presuntuoso, Luis Enrique si propone alla Roma e alla stampa allo stesso modo: ostentando la sua personalità. Nelle settimane del ritiro a Riscone conquista tutti: parla con i ragazzi e con i giornalisti, con l’iPad mostra le sue idee, spiega che la sua squadra non negozierà mai il suo gioco con nessuno, che sarà sempre orientata all’attacco e che annienterà le avversarie in ogni parte del campo. Dopo le sconfitte, pesanti ma in amichevole, contro Paris Saint Germain e Valencia è già sulla difensiva. “Non ho la bacchetta magica” dichiara ad una sala stampa ammutolita, che di lì a qualche settimana lo fisserà il giorno dell’eliminazione dall’Europa League, giocata senza Francesco Totti e con protagonisti due ragazzi giovanissimi in campo e altri che nemmeno erano stati portati in ritiro perché ritenuti fuori dal progetto.
Il resto è storia di oggi: dichiarazioni contrastanti in conferenza stampa (“Juan non è pronto” e poi spedito in campo contro l’Udinese), giocatori buttati nella mischia come manne e poi gettati nel dimenticatoio e una squadra che per ora ha cambiato pelle almeno tre volte. Il tiqui-taca logorroico e inconcludente di inizio stagione, le verticalizzazioni del dopo Roma-Siena, per arrivare al catenaccio della gara contro la Juventus. In mezzo una miriade di cose sacrificate sull’altare di un dio che ancora non si è rivelato, ma che in tanti già hanno provato ad adorare.
Qual è la vera Roma? La sensazione è che questa domanda equivalga a dire: chi è Luis Enrique?