Lo Stato nazionale
La crisi economica sta mandando all’aria molti luoghi comuni di cui negli ultimi due o tre decenni si è nutrito il discorso pubblico di tutto l’Occidente, e in particolare dell’Italia. Forse il più significativo è quello che decretava la presunta fine dello Stato nazionale. Fine non solo presunta ma auspicata, in quanto ritenuta un progresso certo verso un futuro migliore. Da ciò, per esempio, gli inni sempre e comunque all’«Europa», a ciò che in qualunque modo avesse a che fare con la sua «costruzione», l’approvazione a tutto quanto sapesse di limitazione della sovranità statal-nazionale.
Limitazione, peraltro, sempre presentata lessicalmente come un «superamento» (e quindi come qualcosa di positivo).
Ci si è aggiunto, per buona misura, l’orientamento culturale diffuso, volto a dipingere ogni identità collettiva (purché beninteso non fosse quella «politicamente corretta» rivendicata da neri, donne o omosessuali) come l’anticamera del pregiudizio, del razzismo, della guerra: insomma, della violenza. Anche per questa via, quindi, nuovo pollice verso a quei potenti blocchi d’identità storico-culturale rappresentati dagli Stati nazionali.
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