Mario Brozzi: Non si può morire di sport
Prima l’arresto cardiaco che ha colpito il calciatore del Bolton Fabrice Muamba, poi la tragica morte del pallavolista Vigor Bovolenta. Il tutto senza dimenticare il caso di Eric Abidal, terzino sinistro del Barcellona stellare di Messi&Co, costretto a sottoporsi ad un nuovo intervento al fegato dopo quello dello scorso anno. In questo quadro così drammatico l’opinione pubblica si interroga sull’efficienza e sull’efficacia della medicina sportiva. Ne abbiamo parlato con Mario Brozzi, attuale capogruppo della Lista Polverini al Consiglio regionale del Lazio ed ex medico della As Roma.
Onorevole, sempre più spesso ormai gli atleti di varie discipline sono vittime di malori purtroppo mortali. Semplice casualità?
Direi di no. Sebbene non esista nello sport un rischio pari a zero, sicuramente c’è la possibilità di controllare di più e meglio. Probabilmente, le ‘morti improvvise’ non sarebbero così tristemente diffuse, se si praticassero forme di accertamento sanitario più capillari di quanto non si faccia ora. Il fenomeno riguarda i professionisti – e la cronaca degli ultimi giorni ce lo ha tristemente ricordato – ma, ancora di più, i dilettanti, per i quali vige un sistema non altrettanto garante della salvaguardia della salute. Restiamo tutti sconcertati quando un ragazzo perde la vita su un campo di gioco. Dovremmo evitare di rimanere inerti tra una morte e l’altra, sapendo che quello che si può fare deve essere fatto, prima che la cronaca ci racconti di nuovo che qualcuno è morto di sport.
Nel nostro paese cosa può fare concretamente la medicina sportiva per prevenire queste situazioni e tutelare al meglio la salute degli atleti?
Quello che la scienza metteva a disposizione venti o dieci anni fa non è quello di cui fortunatamente disponiamo oggi. È possibile individuare disfunzioni congenite e non, di cui, magari, conducendo una vita normale, neanche ci si accorge, ma che, praticando sport, possono avere effetti devastanti, se non fatali. Ma lo sport è vita e rappresenta un ineguagliabile modello valoriale, sociale e sanitario. Questa presa di coscienza è la premessa per tutelare la salute di chiunque pratichi sport. Sono il promotore di un protocollo medico che porta il mio nome, attraverso la sperimentazione del quale è stato dimostrato che esami medici più approfonditi consentono di intercettare casi a rischio e, quindi, di prendere le dovute cautele. Una tutela che, al giorno d’oggi, è più urgente nel dilettantismo, considerato che il livello professionistico gode di garanzie più elevate, sebbene talvolta anch’esse insufficienti.
Qualche giorno fa Roberto Mancini ha criticato il sistema sanitario sportivo inglese paragonandolo al nostro paese dove, a suo dire, i controlli sono migliori. Esiste, in questo senso, un modello Italia?
Rispetto le considerazioni fatte da Roberto Mancini e non ho motivo di dubitare delle sue affermazioni, che, credo, si riferiscano particolarmente al mondo professionistico. Potrei alimentare però la discussione ricordando a tutti l’occasione che il governo inglese ha colto in previsione delle prossime Olimpiadi: si sta cercando di fare dello sport il veicolo attraverso il quale educare tutti – e quindi non solo gli sportivi – ad un sano stile di vita, inteso come investimento sanitario in termini di prevenzione e di un più utile impiego delle risorse economiche. Un modello del genere non può avere bandiere, è valido ovunque.
Da ex medico della Roma e da attuale consigliere regionale quale ritiene debba essere l’impegno della Regione Lazio per tutelare al meglio la salute degli sportivi, specialmente di quelli giovani e giovanissimi?
Sto cercando di mettere a frutto la mia esperienza di medico sportivo, tramutando in provvedimenti legislativi alcune consapevolezze che ho acquisito nel tempo. Sono promotore di una proposta di modifica alla legge regionale di tutela sanitaria che prevede l’introduzione dell’ecocardiocolordoppler per tutti coloro che si avvicinano alla pratica sportiva, così come ho ottenuto l’inserimento in bilancio del finanziamento del libretto telematico dello sportivo, in grado di registrare la storia medica di ciascuno. Ma credo che il risultato più importante sia la sensibilità mostrata alle mie sollecitazioni dalla Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, circa il significato dello sport e la sua valenza sanitaria, che ci porteranno a una riforma complessiva del ‘sistema sport’. E’ preciso impegno della Presidente che, non appena sarà approvata la legge sul cinema, l’assessorato di Fabiana Santini, di concerto con la commissione sport e cultura presieduta da Veronica Cappellaro e con il contributo di tutto il Consiglio regionale, si metterà al lavoro per il varo di una legge che evidenzierà lo stretto rapporto tra sport e salute, riuscendo così ad incidere positivamente anche sui costi sanitari. La direzione verso cui si muoverà la Regione Lazio sarà quella di fare dello sport un modello di crescita dei cittadini, sani nel fisico, rispettosi delle regole di sport, di vita, di società. La chiave di volta è, infatti, rappresentata dalla consapevolezza che l’importanza dello sport non si esaurisce nel rettangolo di gioco, ma si estende a 360 gradi, investendo la vita di tutti e di ciascuno.
L’Onorevole Mario Brozzi ha in gran parte ragione, e di sicuro le sue iniziative sono meritorie sotto il profilo etico e scientifico.
Tuttavia, nutro non poche perplessità in merito alla possibilità di rendere obbligatoria in modo indiscriminato l’effettuazione di un ecocardiografia su tutti i tesserati ogni anno.
Tale accertamento, infatti, comporterebbe un impegno economico non indifferente nonché a mio avviso serie problematiche organizzative, che allo stato attuale finirebbero per favorire soprattutto i grandi centri medici privati: non a caso, nella proposta di Legge regionale presentata dall’onorevole nel giugno 2011, sono previste convenzioni con i privati.
Questi ultimi sarebbero gli unici, in sostanza, in grado di fornire in tempi rapidi – possibilmente in un unico accesso – tutte le numerose prestazioni connesse a una visita di idoneità agonistica: visita la quale, però, finirebbe col costare all’utente ben più di quanto sia in media disposto a spendere.
In parole povere, l’inserimento di un ulteriore accertamento diagnostico complesso – che a sua volta dovrebbe essere effettuato nella stragrande maggioranza dei casi da uno specialista in Cardiologia – rischierebbe di rappresentare una sorta di ‘balzello’ a carico di tutti gli sportivi, col rischio di rendere la pratica agonistica una prerogativa dei benestanti, e di far tornare indietro il concetto di ‘sport per tutti’ a una dimensione aristocratica da Inghilterra fine ottocento: il che, onestamente, mi sembrerebbe un paradosso rispetto alle prospettive enunciate dallo stesso Onorevole Brozzi.
Basta fare due conti, in effetti: se nella tariffa di una visita medico sportiva devono rientrare le spese (locali, strumenti, eventuale personale paramedico, materiale di consumo vario, ma soprattutto: tasse ) nonché gli onorari lal netto delle tasse di almeno due specialisti, quanto dovrebbe venire a costare? 150 euro?
E inoltre: quanto durerebbe una visita medico sportiva, che già allo stato attuale alla luce della sua complessità non può essere dignitosamente effettuata in meno di 40 minuti? Due ore?
Oppure la stessa visita dovrebbe essere svolta in due accessi separati, comportando disagi e perdite di tempo per tutti?
Quanto si allungherebbero, pertanto, i tempi di attesa delle svariate centinaia di migliaia di sportivi laziali, la cui stragrande maggioranza affolla gli ambulatori nel periodo agosto-marzo, non avendo tra l’altro le federazioni alcun interesse a svincolare la data del tesseramento da quella della visita di idoneità?
L’On. Brozzi conosce in modo approfondito la realtà delle società di calcio romane, e sa benissimo che di norma i dirigenti e le stesse famiglie dei giovani calciatori urlano allo scandalo già se una visita viene a costare più di 50 euro.
Questa, del resto, è la principale ragione del prosperare del cosidetto ‘peonismo’: spregevole fenomeno che caratterizza una tipologia di effettuazione delle visite medico sportive ‘a catena di montaggio’, a tariffe risibili, spesso in locali inadeguati e non autorizzati, senza emettere fattura (!), da parte di specialisti-rubagalline.
In conclusione, alla luce delle criticità di una branca specialistica – la Medicina dello Sport – la cui attività si basa su una legge dell’ormai lontano 1982, si può fare molto, ovviamente, per migliorare il livello e la qualità degli accertamenti connessi alle visite di idoneità sportiva, ma credo che vadano sempre tenuti presenti i costi sociali rispetto ai benefici in termini di prevenzione.
Sono convinto, altresì, che l’obiettivo di un miglioramento della situazione non possa prescindere da un potenziamento e da un’implementazione dei servizi di Medicina dello Sport pubblici, i quali allo stato attuale sono sottoconsiderati, privi di risorse ma, soprattutto, non sono organizzati in funzione di un criterio di omogeneità, nè tantomeno di quello della specificità scientifica e normativa di questa disciplina medica.
La maggior parte degli ambulatori pubblici di Medicina sportiva, infatti, è inserita nel contesto dei Servizi di Igiene (sic!), e una tale collocazione non rende merito alla complessità e alla poliedricità delle prestazioni offerte da una disciplina specialistica che presenta un’autonomia culturale rispetto a tutte le altre, e che è caratterizzata da un bacino di utenza immenso: basti pensare alla sconfinata massa di coloro che praticano attività fisiche non agonistiche, a scopo unicamente ludico-ricreativo, e di coloro che l’attività fisica la dovrebbero praticare per prevenire e curare i propri disturbi.
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