Lavoro. “Un passo avanti e due indietro”
Un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo. Capace di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità. “Questo intervento è un passo in avanti e due indietro”, osserva però Emmanuele Massagli, presidente di Adapt (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni industriali) già coordinatore dal 2010 al 2011 della segreteria tecnica del ministro del Lavoro e delle politiche sociali. “Abbiamo recentemente pubblicato – spiega a T-Mag – un Bollettino Speciale Adapt sulla riforma del lavoro dove abbiamo sostenuto che questo intervento è un passo in avanti e due indietro. Un passo in avanti – chiarisce – per la capacità di affrontare più liberamente argomenti tabù dal Libro Bianco del 2001 ad oggi, penso quindi all’articolo 18. Due indietro per la filosofia sottesa alla norma, che accredita quell’equazione flessibilità = precarietà che la Legge Biagi aveva, con realismo, messo in discussione provando a tutelare il lavoratore nel suo percorso di lavoro e perché la somma totale di nuova occupazione creata con questo intervento probabilmente sarà negativa. La flessibilità in uscita non colma il disincentivo ad assumere causato dalla maggiore rigidità in entrata”.
Quali le misure contenute nel documento del ministero che convincono di più e quali di meno? “Personalmente – risponde Massagli – mi pare molto ragionevole l’intervento sugli ammortizzatori sociali. Certo, dimentica la dimensione bilaterale e può determinare, questo andrà chiarito, maggiori costi per il piccolo imprenditore, ma la logica dell’intervento (necessità di ampliamento del numero di aziende coperte e natura assicurativa dell’ammortizzatore sociale) è in linea con l’evoluzione della normativa in materia degli ultimi anni. Sono invece poco convinto dall’impianto del capitolo sulle tipologie contrattuali. Non credo che la flessibilità sia causata principalmente dalla rigidità in uscita, bensì dalle esigenze di un mercato del lavoro in profondo mutamento. Non è la legge che crea posti di lavoro. Interventi di irrigidimento sulle tipologie contrattuali ‘di ingresso’ rischiano di avere effetti deprimenti sull’occupazione, più che spingere gli imprenditori ad utilizzare contratti a tempo indeterminato”.
L’aumento del costo contributivo per i contratti a tempo determinato, hanno sostenuto alcuni osservatori, potrebbe incidere sugli stipendi. Il presupposto “sbagliato”, a loro dire, sarebbe quello di giudicare i datori di lavoro degli opportunisti anziché prendere in considerazione le reali difficoltà di molte imprese. “Il punto è: quando la cosiddetta flessibilità va pagata di più? Capisco – afferma il giovane economista classe ’83 – che la logica dell’intervento sia quella di scoraggiare il ricorso a contratti a tempo solo perché più vantaggiosi e non perché realmente necessari all’organizzazione dell’impresa. Questo ricorso esclusivamente ‘economico’ va contrastato. Ma non possiamo credere che tutti gli imprenditori ricorrano a contratti a termine solo per motivi di risparmio contributivo. Sempre più spesso sono le esigenze produttive e i cicli economici a configurare esigenze stagionali o di durata ben delimitata o ‘a progetto’. In questi casi non si può riproporre sempre il modello assorbente del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Alla riforma del mercato del lavoro andava affiancata per forza di cose una riforma degli ammortizzatori sociali. Il governo ha introdotto l’Aspi. Quali istituti ancora mancano per garantire una più equa gestione delle risorse e delle tutele per i lavoratori? Ciò che manca – sostiene Massagli – è la componente ‘politiche attive’, relegata anche nel documento ministeriale in due paginette conclusive. In particolare si perde l’incoraggiamento all’importanza della formazione continua, che è la principale forma di protezione del lavoratore in un mercato del lavoro che sempre più velocemente rende obsolete conoscenze e competenze. In questo disegno di legge le politiche passive paiono potersi finanziare anche a scapito dei fondi destinati alla formazione, si pensi allo 0,30 dei Fondi interprofessionali o alla diminuzione dell’aliquota del 4% dei somministrati. Un passo indietro – conclude – rispetto a quanto le stesse parti sociali hanno perseguito finora”.