La precarietà dell’ambiente nelle agende
L’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse, compaiono in misura differente tra le priorità delle strategie e dei programmi elettorali, quelli che oggi si chiamano “agende”.
Anche il Piano del Lavoro, della CGIL, presentato nei giorni scorsi, mette tra le priorità l’ambiente, il territorio e l’energia: un fatto significativo che, però, ha bisogno della politica economica e di una svolta che non può fermarsi alle parole.
I cambiamenti climatici, l’innovazione ecologica del sistema economico e la capacità di riorganizzare il ciclo di produzione e di consumo, imporrebbero che la sostenibilità divenisse una politica strutturale e integrata: la sfida di guardare “oltre il PIL” è qualcosa che esce dalla sfera dell’ambientalismo e diventa, piuttosto, la determinante di politiche capaci di innovare l’economia e la società, rispondendo alla globalizzazione.
Si tratta di vedere l’ambiente non come un vincolo né di condizionare le scelte in un quadro di emergenza: sta tutta qui la scelta di indicare il “fare”, il realizzare una capacità di governo in grado di assumere decisioni e dare concretezza a politiche basate sull’efficienza.
In quale quadro si colloca questa nuova capacità? Se alla necessità di fare, di saper fare, corrisponde una situazione che, al confronto con altre politiche pubbliche, concentra una delle più alte percentuali di precarietà e di indecisione, possiamo renderci conto che il “fare” non può tradursi esclusivamente nella realizzazione di opere pubbliche e di appalti che costituiscono solo uno degli aspetti dell’azione volta a innovare e rendere efficiente il sistema.
La precarietà delle norme, l’assenza di una politica economica che faccia proprie le strategie di sostenibilità, associate alla precarietà consolidata di chi lavora nel settore ambientale fa sì che si determini una situazione di incertezza e di volatilità della capacità di incidere e governare.
In Italia il Ministero dell’ambiente, istituito nel 1986, ha una consistenza di lavoratori precari, con diverse forme di contrattualizzazione che descrive una politica rimasta sempre sulla carta, a livello di enunciazione; e questo non è il solo caso perché, questa situazione, si riflette anche sul sistema delle Agenzie ambientali, ISPRA e ARPA, con situazioni che variano da regione a regione con dati inquietanti. In 27 anni il Ministero dell’ambiente non ha mai svolto un concorso per assumere personale tecnico, competente e specializzato. Si è, viceversa, resa strutturale la precarietà affidando l’attuazione di politiche importanti come acqua, rifiuti, biodiversità, valutazione di impatto, inquinamento atmosferico, energia, … , a strutture costituite in parte da precari, con contratti di lavoro sottoposti a continue scadenze. Si è scelto, in questi anni, di costruire un sistema parallelo, fatto di convenzioni, incarichi, consulenze, spesso con pochi elementi di trasparenza ma capace di alimentare un flusso consistente di lavoro, legato a progetti limitati nel tempo, dove, non sempre, competenza e merito sono stati i criteri di selezione.
Non è quindi soltanto un problema di fare ma anche di come fare, assicurando efficacia ed efficienza alle politiche, contribuendo a uscire da una situazione di incertezza e di emergenza, che in molti casi diviene strumentale per aggirare il problema e rinviarlo, incrementando i rischi e i danni per la collettività.
È anche una questione di responsabilità della politica di assumere decisioni che abbiano una visione verso il futuro, basata su capacità di analisi e di programmazione, evitando una marginalità delle questioni ambientali rispetto alle scelte di sviluppo e di crescita.
Perché, ed è sotto gli occhi di tutti, l’emergenza ambientale diventa, necessariamente, un limite allo sviluppo, con situazioni di degrado e di danno alla salute, di incapacità di programmare la crescita dell’economia: l’allarme PM10 deve essere considerato come un indicatore dell’inefficienza delle politiche realizzate, fino ad oggi, in materia di trasporto, di energia, di pianificazione.
Un allarme costante che non può essere risolto con soluzioni-tampone, come il blocco del traffico o le targhe alterne ma che richiederebbe, piuttosto, un’inversione di tendenza, con investimenti e capacità di programmazione. Il dramma dell’ILVA, di Portovesme e di mille altri siti industriali inquinanti e in crisi non possono essere affrontati, nel 2013, con le deroghe e l’incapacità della politica di assumere decisioni.
Un limite, quello della debolezza strutturale delle istituzioni preposte al controllo ambientale, che diventa, conseguentemente, un terreno facile per le infiltrazioni criminali e la diffusa presenza di aree sfruttate illegalmente per traffici legati alle eco-mafie. I controlli ambientali, e il rispetto delle leggi, non possono esser visti come un lusso superfluo né possono continuare a essere svolti in modo precario, discontinuo e con scarsi riflessi sulla programmazione economica.
Un altro dato può essere un utile indicatore di tale situazione: le infrazioni comunitarie in materia di ambiente rappresentano il 26% del totale, con le 26 infrazioni registrate al 21 novembre 2012. Una posizione non invidiabile, che pone l’Italia tra gli stati membri meno virtuosi, con danni che si riflettono anche economicamente sul sistema. 26 infrazioni (su 99) in materia di ambiente sono la dimostrazione che il problema non è esclusivamente legato al fare ma anche alla qualità e all’efficienza dell’amministrazione, in termini di adozione delle normative comunitarie e, soprattutto, nel far rispettare gli impegni assunti con l’Unione europea.
Occorre comprendere, se si intende realizzare una nuova stagione politica, che la sostenibilità, perseguita attraverso politiche integrate e non settoriali, non può prescindere da strategie di sistema che prevedano, viceversa, una separazione tra l’ambiente e l’economia.
Questo è ancor più vero se rapportato alle soluzioni di politica economica che dovrebbero essere realizzate per invertire il ciclo della crisi, per innovare le produzioni e investire, in modo strutturale, per creare nuove opportunità di sviluppo. La green economy, non è e non può essere uno slogan privo di contenuti e di una base strategica capace di collocarla tra gli strumenti che si hanno a disposizione per creare occupazione e investimenti.
Questo è il ritardo della politica nel suo complesso, delle agende, che continuano ad avere una percezione del problema piuttosto dell’opportunità che può essere data, al sistema, in termini di efficienza e competitività, rivedendo questioni fondamentali, quali il consumo delle risorse, in una logica più legata alla crescita piuttosto che allo sviluppo.
Sarebbe giunto il momento di discutere di questi temi, ponendosi il dubbio che non sia necessario operare esclusivamente attraverso politiche infrastrutturali ma innovando il modo di produrre, di consumare, di trasportare: confrontando la necessità di impegnare risorse ingenti per la realizzazione di “grandi opere”, accrescendo il debito pubblico, piuttosto che investire sull’efficienza del sistema, operando con capacità le liberalizzazioni e migliorando le dinamiche del sistema economico di essere competitivo anche grazie all’eliminazione di alcuni vincoli strutturali, ricostruendo efficienza e continuità delle politiche ambientali.
Sono, questi, delle variabili di rottura, dove si può optare per un modello di sviluppo piuttosto che un altro: perché ciò accada è necessario che le “agende” percepiscano l’esigenza di un cambiamento strutturale, facendo uscire l’economia “verde” da una logica di nicchia, di marginalità e precarietà.
La sfida del “fare” è soprattutto questa: sarebbe necessaria la capacità di vedere oltre alla scrittura di norme quanto, piuttosto, sia possibile incidere sulla capacità di operare per innovare e rendere moderno ed europeo il nostro modello economico. Perché ciò accada è necessario che dalle Agende si passi ai fatti concreti: a un’innovazione fatta anche di personale competente, selezionato sulla base dell’esperienza e della capacità, uscendo da una logica che, fino a oggi, è stata di improvvisazione e ripetitività, funzionale a un approccio in grado di produrre molti buoni intenti ma con scarsi risultati concreti.
Le Agende il 26 febbraio scadono mentre resta la necessità di ricostruire la competitività dell’economia: questo sarebbe il compito che aspetta chi dovrà assumere la responsabilità di governare l’Italia, con l’impegno di investire nel Futuro, piuttosto che restare bloccati nel passato.