La chiamata “nella vigna del Signore”
“I signori cardinali hanno nominato me, un umile lavoratore nella vigna del Signore”. Così il 18 aprile 2005 Joseph Ratzinger diceva sì alla cattedra di Pietro, accettando il difficile compito di guidare la Chiesa dopo la morte di Giovanni Paolo II.
E accusato troppo spesso di essere conservatore e refrattario alla modernità, da due giorni Benedetto XVI scuote, lui più che mai lui più di tutti, la coscienza di una Chiesa che s’interroga oggi sulla figura del Pontefice. In tanti si sono chiesti se si è Papa o se si fa il Papa. Alcuni reclamando il diritto di figli a non essere abbandonati, altri puntando il dito contro quella gerarchia ecclesiastica che non sa più vivere la sua vocazione, altri ancora offuscati dall’imbarazzo di un’inedita scelta.
“Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino” – ha dichiarato in latino il Pontefice durante il Concistoro ordinario in Vaticano per la canonizzazione dei circa 800 martiri di Otranto e di due monache spagnole.
Il Papa lascia “per il bene della Chiesa”, dunque, dopo una lunga e sofferta meditazione, immaginiamo. Dopo una lotta tra obbedienza e coscienza. Dopo un confronto tra uomo e Dio, forse, in cui un Papa può solo ascoltare, mai opporsi.
“Io sono la scopa di Gesù: quando servo, sto in mezzo e quando non servo più, sto dietro la porta, in un angolo” – diceva Santa Bernadette. E ancora Santa Teresina di Lisieux: “Io sono una pallina nelle mani di Dio, non però una pallina nuova che temi di sciupare, ma una pallina usata. Lui ci può giocare come vuole e quanto vuole, senza temere di rovinarla. Può sbatacchiarla, darle calci, tirarla lontano”. “Io sono una matita nelle mani di Dio. Con me il Signore scrive ciò che vuole” – spiegava Madre Teresa di Calcutta.
“Un umile lavoratore nella vigna del Signore” – ha detto il Papa. Che conosce le sue piante, sa quando è tempo della semina e quando del raccolto, legge le stagioni e intende i cambiamenti, si lascia guidare dal sole e impara ad approfittare delle piogge abbondanti. L’operaio della terra ha il senso delle scadenze senza considerarle rottura, sente quando la mano dell’uomo deve fermarsi, per il bene dei fiori, per la riuscita dei frutti.
L’umiltà della scelta di Benedetto XVI non ha il sapore del complotto, non parla di sconfitta o di scoraggiamento, non è disobbedienza, non è paura, non è ferita, non è certo scandalo. E’ umanità piuttosto. L’umanità di un uomo che sa riconoscere che il suo tempo è terminato, che non teme di rinunciare alla ferula papale per amore della sua Chiesa.
Dal 28 febbraio, dopo le ore 20, Joseph Ratzinger vivrà prima a Castel Gandolfo, poi nel piccolo monastero “Mater Ecclesiae”, nel cuore del Vaticano. Tornerà sui suoi libri, a meditare e pregare come fanno gli eletti.