Perché dico sì ai matrimoni gay
“Il matrimonio si è evoluto nel tempo e noi crediamo che aprirlo alle coppie dello stesso sesso rafforzerà, non indebolirà, l’istituzione”. È una frase che da sola spiega già tutto. A scriverla in una lettera pubblicata sul Daily Telegraph sono stati il ministro delle Finanze britannico George Osborne e i colleghi William Hague (Esteri) e Theresa May (Interno), tutti e tre importanti esponenti tories. Il loro intervento ha messo nero su bianco, l’indomani dell’approvazione alla Camera dei Comuni del progetto di legge che autorizza i matrimoni gay, una riflessione di cui si era fatto portavoce tempo prima David Cameron: “Sosteniamo le nozze omosessuali perché siamo conservatori”. L’istituto del matrimonio, potremmo spiegarla altrimenti, deve essere rinvigorito secondo nuove e particolari esigenze che caratterizzano la mutevolezza della società contemporanea. Non è una questione di giustizia sociale, per dirla brutalmente, bensì un diritto naturale. Come naturale, del resto, è il legame tra due persone che si amano.
Dal Regno Unito, dunque, giunge una lezione di conservatorismo al contrario. Paracula se volete, ma senza dubbio efficace. È un messaggio chiaro in grado di scardinare le ultime barriere culturali che pure trovano paladini agguerriti laddove si tenta di forzare l’ordine prestabilito. Le proteste di Parigi – è cronaca recente – sono un esempio lampante in questo senso. Il Parlamento europeo ha perorato la causa circa un anno fa, approvando una risoluzione (non vincolante, quindi) secondo cui “i governi non devono imporre definizioni restrittive di famiglia”.
Sono tanti i motivi per essere favorevoli ai matrimoni gay. Per banale che sia il primo è la libertà di poter scegliere, che non si capisce per quale astrusa ragione non dovrebbe contemplare una specifica categoria di persone il cui unico “difetto” – perché a questo si è talvolta spinto il dibattito – è avere diversi gusti sessuali.
Negli Stati Uniti il presidente Barack Obama, che già aveva aperto all’eventualità in campagna elettorale, ha fatto richiesta di abolizione alla Corte suprema del Defense of marriage act secondo cui l’unica forma di matrimonio possibile è quella tra un uomo e una donna. La mossa dell’inquilino della Casa Bianca ha creato qualche tensione all’interno del Partito repubblicano che adesso annovera tra le sue file un gruppo di politici firmatari di un documento in difesa della costituzionalità delle nozze gay. “Se nell’occidente secolarizzato l’ostilità verso i gay è diminuita”, ha scritto sul New Yorker Alex Ross (articolo apparso in Italia su Internazionale), “è probabilmente perché ci si è resi conto che l’omosessualità non è una scelta, uno ‘stile di vita’, ma è una vita”. Una vita che ancora oggi può incontrare ostacoli e difficoltà. “Gran parte dei cittadini tra i 18 e i 74 anni (61,3%) – si legge in una pubblicazione dell’Istat, La popolazione omosessuale nella società italiana (2012) – ritiene che in Italia gli omosessuali siano molto o abbastanza discriminati, cioè trattati meno bene dei non omosessuali. Il 25,7% ritiene che siano discriminati, ma poco. Il 13% ritiene che non vi sia alcuna discriminazione. Secondo la metà degli intervistati la situazione è migliorata negli ultimi cinque anni, mentre per il 40,5% non si è verificato alcun cambiamento”. Se si parla di matrimonio, però, è netta la spaccatura tra favorevoli e contrari: meno della metà dei rispondenti si dichiara d’accordo (24% molto e 19,9% abbastanza), il 41,1% si dichiara per niente d’accordo e il 15% poco d’accordo.
In Italia, come si vede, il dibattito è di quelli spinosi e nonostante l’impegno di una parte, almeno, della classe politica a porre rimedio alle frizioni che dividono le diverse anime, ad una soluzione vera e propria del problema non si è mai riusciti ad arrivare. Nel 2010 la Corte costituzionale si è espressa dopo che il Tribunale di Venezia aveva sollevato la questione di mutamento sociale nell’accogliere le istanze di due coppie che desideravano celebrare il matrimonio, impegnando così il Parlamento a “individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”. L’articolo 29 della Costituzione recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. L’ostacolo, dunque, è soprattutto culturale. La tradizione vuole la famiglia come società naturale quella costituita da un uomo e da una donna, non tenendo conto delle alternative di cui si fa carico la società moderna. Alcune scelte del passato, dettate dalla consapevolezza del loro tempo, hanno permesso modifiche non indifferenti all’istituto del matrimonio, come ad esempio l’introduzione del divorzio. Alla stregua di quanto già avvenuto, estendere tutele e diritti che sanciscano di fatto un nuovo modello (che vada cioè oltre i diritti di cui godiamo in ogni caso) significa proporre uno schema portatore di sviluppo sociale, una spinta propulsiva verso la pienezza individuale (al bando qualsiasi forma di discriminazione, per spiegarla semplice). Parafrasando Cameron “si tratta di parità, ma anche di rendere più forte la nostra società”. Le belle parole sono tuttavia poca roba. Serve, in Italia, un chiaro impegno politico. Che non sembra essere all’orizzonte, data l’incertezza post-elettorale. Se ne riparlerà, forse, al prossimo giro.
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Ottimo e chiaro.
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