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Il bello di essere un numero 10

di Fabio Germani

C’è un solo elemento che è sopravvissuto al calcio moderno: il fascino per il numero 10. Roberto Baggio, Alessandro Del Piero, Roberto Mancini. L’Italia pallonara degli ultimi anni può vantarne parecchi, di numeri 10 di livello. Il 10, da sempre, viene stampato sulla casacca di colui che sforna assist, che trascina la squadra nei momenti belli e in quelli brutti, che ha il guizzo del campione quando meno te lo aspetti. È il numero dell’imprevedibilità. È una responsabilità.
Pur restando un’aspirazione per molti, nel tempo ha perso un po’ del suo significato originale. Tanti giocatori se ne sono impossessati non meritandolo. Altri, che 10 erano dalla nascita, hanno preferito indossare numeri diversi. Il nome sulle maglie e l’obbligo di scegliere una cifra che poi ti accompagnerà per l’intera stagione, è il più grosso favore che il calcio moderno ha fatto agli sponsor. Se scegli il 43 anche per sbaglio è probabile che te lo porterai dietro per tutta la carriera. Puoi avere i piedi fatati e fregartene del 10, decidendo per un numero che in questo sport – diciamolo chiaramente – è contronatura.
Ma esistono giocatori che hanno avuto la fortuna di calcare i campi di gioco a cavallo tra le due epoche – da Tutto il calcio minuto per minuto alla pay per view – e di indossare una maglia come se fosse una seconda pelle. Non perché qualcuno glielo abbia mai imposto, ma perché è quella ed è sua di diritto: la numero 10.
Quella di Francesco Totti è una storia d’amore. Ha giocato da seconda punta, da trequartista, da mezz’ala, di nuovo da trequartista, da centravanti e ancora da trequartista con licenza di spaziare su tutto il fronte d’attacco. Tanti lavori in vent’anni tondi tondi, sempre con gli stessi colori – il giallo ed il rosso – e con il peso del 10 sulle spalle e della fascia di capitano, due simboli che nel calcio sono spesso andati a braccetto.
Non si è numeri 10 per caso. Totti è il calciatore moderno ideale: sa adattarsi a qualsiasi ruolo, calciare da qualsiasi distanza, fare gol come il più classico dei numeri 9. Ora, prendete il numero di gol segnati in Serie A e moltiplicatelo per quattro: non avrete comunque ottenuto il numero delle volte che in rete ci ha mandato i compagni di squadra. Da Balbo a Delvecchio, da Montella a Batistuta, da Cassano a Perrotta (che attaccante non è).
Tre sono le date più importanti nella carriera di Francesco Totti. Il 17 giugno del 2001, quando vince lo scudetto con la Roma che è come vincerne cinque altrove. Il 19 febbraio del 2006, quando un terribile infortunio rimediato durante la partita con l’Empoli quasi mette a repentaglio la sua carriera. Il 9 luglio del 2006, quando con una caviglia ancora malconcia diventa campione del mondo con l’Italia.
Dopo l’operazione gli dicono di tutto. Che è finito, che ormai è buono soltanto a raccontare barzellette, che al Mondiale è contato come il due di coppe. Marcello Lippi non è d’accordo. I suoi tifosi non sono d’accordo. La Fifa, che lo inserisce nella rosa dei 23 migliori giocatori del torneo, non è d’accordo. Totti risponderà alle critiche nell’unico modo che conosce: a suon di gol. È nel 2007, infatti, che vince la Scarpa d’oro, riconoscimento europeo al miglior cannoniere del Continente. Ed è sempre in quell’anno che segna la sua rete più bella. A Genova, contro la Sampdoria: tiro al volo di sinistro da posizione impossibile. Tutto il Marassi in piedi ad applaudire l’impresa del capitano giallorosso.

Non sei un numero 10 se prima non ti fai conoscere per un segno distintivo. Il suo è il “cucchiaio”, con cui beffa diversi portieri (chiedere a Van Der Sar o a Julio Cesar). Francé, faje er cucchiaio. E lui lo fa, non si tira certo indietro.
Gli capita pure di perdere la testa. Ad esempio quando sputa in una partita di un campionato europeo ad un difensore avversario il cui unico scopo era innervosirlo (missione compiuta). O quando rifila un calcione a Balotelli in finale di Coppa Italia contro l’Inter. Sbaglia, lo riconosce, va avanti. Segna e mano a mano li supera tutti: Del Piero, Baggio, Meazza, Altafini. Raggiunge Nordhal il 3 febbraio del 2013 (all’Olimpico contro il Genoa) e si commuove alla vista dei figli che gli corrono incontro. Indossano entrambi una maglietta: “Sei forte papà”.
Il numero 10, da sempre, viene stampato sulla casacca di colui che sforna assist, che trascina la squadra nei momenti belli e in quelli brutti, che ha il guizzo del campione quando meno te lo aspetti. È il numero dell’imprevedibilità. È una responsabilità. Il bello di essere un numero 10 è che se ti chiami Francesco Totti puoi fare anche gol. 225 volte, almeno.

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