L’ultimo baluardo del tessuto sociale
Solo una malattia poteva fermare la corsa di Pietro Mennea, morto il 21 marzo in una clinica di Roma. Una corsa che, oltre a vederlo vittorioso sulle piste di atletica, lo ha visto vincente anche nella vita fuori dallo sport. Il campione, infatti, oltre ad aver vinto 39 medaglie d’oro, dieci d’argento e quattro di bronzo e dopo essere stato per 17 anni il detentore del record sui 200 metri con 19 secondi e 72, si è dedicato anche ad altro.
La “Freccia del Sud” si è laureato in scienze politiche, giurisprudenza, scienze motorie e lettere, inoltre ha lavorato come commercialista e avvocato in uno studio della capitale. Il mondo dello sport, però, non lo ha mai abbandonato del tutto. Ha avuto anche un ruolo nello staff della Salernitana Calcio e in seguito ha intrapreso la carriera politica diventando eurodeputato a Bruxelles dal 1999 al 2004.
Mennea ha condotto una lotta in prima persona contro l’uso del doping. “Purtroppo è diventato un grande business in mano alla criminalità organizzata – disse parlando agli studenti di educazione motoria e medicina Istituto di anatomia a Careggi, Firenze -, dato che viene commerciato in un mercato nero. Che è più lucrativo di quello degli stupefacenti. Sì, perché il grosso del mercato del doping lo troviamo tra gli amatori che affollano le palestre. Mi batto da anni per una legge penale comunitaria che funzioni da deterrente riguardo all’uso di simili sostanze. Oggi in Europa solo cinque stati hanno una legge simile. E io avevo lottato affinché fosse estesa a tutta l’Unione europea”.
L’atleta riteneva che il doping non fosse altro che una scorciatoia per arrivare prima e più facilmente al successo. Però, come sottolineò lo stesso Mennea, mentre lui parlava di fronte agli studenti tanti atleti, che quasi sicuramente facevano uso di anabolizzanti, non c’erano più e la loro morte era rimasta nell’ombra del mistero e del sospetto. “Io mi sono allenato per 20 anni – sottolineò – ho avuto una carriera lunghissima come velocista, ma non mi sono mai neanche strappato. Invece, se avessi fatto uso di steroidi anabolizzanti, mi sarei strappato chissà quante volte”.
“Una prestazione – sottolineava sempre – è figlia di tanti fattori. Mentre un campione si valuta nell’arco di un’intera carriera. La mia longevità sportiva è un punto d’orgoglio perché è figlia di sacrifici, fatica, allenamenti massacranti. Il doping è il primo nemico delle regole agonistiche, anche se, costituendo un business gigantesco, purtroppo è una piaga difficile da estirpare”.
Evidenziava sempre lo sport come “l’ultimo baluardo del tessuto sociale”, almeno per quanto riguarda il rispetto delle regole. Così da far capire che quello che arriva sul podio di una gara, come quello che ottiene successi nella vita al di fuori dello sport, ci riesce grazie alla bravura e non alla furbizia. Che poi, in realtà, furbizia non è, se non del tutto effimera.