Il Paese è allo sbando: fare presto
E’ con rammarico e preoccupazione profondi che l’intero Paese proprio non merita, assistere all’impazzimento della maionese di un ceto politico incapace di formare un governo, ad un mese dal voto.
Nel pomeriggio dello scrutinio, Paolo Mieli aveva proposto di superare l’impasse, evidente da subito, con un impegno di chi (a quell’ora ancora non si sapeva su quale numerino della roulette si sarebbe fermata la pallina) avesse raccolto la maggioranza relativa (che per effetto del Porcellum si sarebbe trasformata in assoluta alla Camera, con un Senato, però, all’evidenza ingovernabile) ad un accordo che coinvolgesse possibilmente tutti (se poi qualcuno si fosse rifiutato, problemi suoi) sul nuovo governo, sulle misure da prendere (economia, nuova legge elettorale, riforme) e sui vertici istituzionali (presidenza delle Camere, e, soprattutto, Quirinale).
Appelli a responsabilità e condivisione si son levati da più parti in questo mese, su tutti il presidente Napolitano, e molte penne autorevoli, dai “corrieristi” De Bortoli, Polito, Battista, Franco, a Folli del Sole 24 Ore, a Sorgi della Stampa. Responsabilità comune, condivisione, tutti termini, che tradotti dal politichese, significano un accordo di Gross Koalition, che coinvolga Pd, Pdl e centristi montiani.
Il boccino era in mano al Pd e al segretario Bersani, il quale però, sia direttamente, sia per bocca dei suoi fedelissimi (Gotor, Orfini, Moretti, Orlando, Fassina) ha sempre escluso prospettive di collaborazione con Berlusconi & Co., muovendosi solo in direzione grillina, ma ricevendone, in cambio, rifiuti nella migliore delle ipotesi, e pesanti insulti nella peggiore. Il tentativo di coinvolgimento dei 5 Stelle, sarebbe stata una buona intenzione, quasi obbligata, se si fosse limitato ad un approccio iniziale; invece, quella che sembrava essere una battuta per smaltire l’amara sbornia post voto, si è rivelata come l’unica strategia messa in campo, contrariamente al parere di molti nel partito (da D’Alema, a Veltroni, a Renzi), che la giudicavano una “follia”. Bersani si è rivelato sordo ad ogni suggerimento, comportandosi come chi abbia coltivato per una vita un sogno, e quel sogno, a portata di mano sino all’ultimo, sfugge, per uno strano scherzo del destino “cinico e baro” (è proprio il caso di dirlo), cosa che avrà senz’altro provocato nel premier incaricato delusione e frustrazione, scaricata contro l’“odiato” Cav., che per l’ennesima volta rompeva le uova nel paniere.
La strategia Pd oscilla dall’approccio coi grillini, cercando di provocarne una scissione sufficiente a far nascere l’esecutivo, ad un governo in alleanza coi montiani e col benestare leghista. Entrambe le ipotesi, però, oltre alla precarietà numerica, scontano un deficit di omogeneità politica (sempre necessaria, ma indispensabile quando si gioca sul filo dei numeri, pena la fine di Prodi). L’accordo coi 5 Stelle, da subito, è parso impraticabile, per la non volontà da parte di Grillo, ripetuta in tutte le salse, di assecondare i desiderata democrat; l’altra strada, non meno precaria, prevederebbe un governo da Vendola a Calderoli, passando per Monti ed in cui ogni singolo senatore sarebbe decisivo, con una compagine al cui confronto la litigiosa squadra di Prodi somiglierebbe al ritratto dell’armonia.
Il guaio è che (come hanno ricordato tutti i gruppi sociali consultati dal premier incaricato) serve un governo stabile, urgentemente: l’economia è allo sbando, le prospettive peggiorano (come rivelano le previsioni, via via più fosche, su Pil e debito), lo spread torna a crescere, l’euro, dopo Cipro è in crisi (e già si preannuncia il contagio in Slovenia); come si governa tale emergenza, col conflitto d’interessi? Serve uno sforzo collettivo di riconoscimento reciproco: l’avversario non è il nemico; bisogna affrontare le emergenze, senza lasciarsi prendere (come purtroppo è capitato a Monti che oltretutto lo ha fatto tardi e male) da parte di chi dovrebbe guidare un tale governo unitario, dall’ambizione, e portando a termine le riforme necessarie per far ripartire il Paese.
Temo, però, purtroppo che così non andrà: sembra di esser tornati, a parti invertite, ad un anno e mezzo fa, quando il governo Berlusconi in stato comatoso non riusciva a produrre un provvedimento che fosse uno (“qualcosa c’inventeremo” sibilò Bossi e si è visto come è finita), mentre lo spread s’impennava, con un ceto politico che ballava sul Titanic di un Paese che affonda. Ora dal voto sono uscite quattro forze (o sarebbe più corretto parlare di debolezze?) politiche, l’un contro l’altra armata, e ciascuna delle quali pensa solo all’interesse di parte senza preoccuparsi di quello del Paese. Del centrosinistra e dei grillini si è detto; non molto più responsabile si dimostra il centrodestra, oscillante da un interessato invito al governissimo, alla richiesta di elezioni anticipate come di chi già si sente in campagna elettorale di cui è prova la manifestazione di una settimana fa a Roma; il centro di Monti ha come unica linea politica la paura delle urne, con un premier uscente la cui ambizione personale è apparsa fuori luogo soprattutto a seguito dell’esito elettorale (solo Napolitano ne ha stoppato la corsa a presidente del Senato, nelle cui trattative Monti faceva emergere di coltivare addirittura sogni quirinalizi, tuttora non sopiti). Insomma, il quadro è preoccupante, e gli attori in campo, anche quelli che sembravano i più responsabili come Bersani e Monti, sembrano aver perso la testa dopo la delusione elettorale, dimostrandosi incapaci di governare un Paese che di un governo avrebbe bisogno assoluto ed urgente. “Fate presto” titolava Il Sole 24 Ore nell’emergenza spread, a novembre 2011. Tale titolo andrebbe ripreso pari – pari oggi.
Un’ultima battuta sul Quirinale: il centrosinistra avrebbe quasi i numeri per eleggersi da solo il nuovo presidente della Repubblica; eviti di fare quest’errore. A breve si tornerà al voto, col centrodestra che potrebbe vincere le elezioni e che in caso di strappo sulla votazione per il Colle tra qualche settimana, potrebbe giocarsi la bomba atomica. Mi spiego: Napolitano in assenza di numeri certi, non dovrebbe dare a Bersani un incarico pieno per andarsi a schiantare sulla fiducia, e gestire le inevitabili elezioni; ma tale soluzione (il no a Bersani) è figlia di un’impostazione più presidenziale che parlamentare: in passato incarichi al buio sono stati dati, e un’obiezione in tal senso a Napolitano si potrebbe muovere. Ora, immaginiamo che in assenza di qualsiasi accordo, il centrosinistra si elegga il suo presidente di parte (Prodi, Rodotà, Zagrebelsky? fate voi), si torni poi al voto a luglio, o a settembre, con la vittoria del centrodestra (i sondaggi darebbero per abbastanza probabile tale ipotesi); il neopresidente della Repubblica potrebbe imporre a Berlusconi numeri certi per l’incarico. A quel punto, lo scontro inevitabile potrebbe portare il centrodestra (maggioranza assoluta alla Camera, e relativa al Senato) che avrebbe la maggioranza in quel Parlamento in seduta comune, a mettere in stato d’accusa il nuovo Capo dello Stato, per poi eleggersene uno proprio, e così ad ogni cambio di maggioranza. La guerra civile sarebbe ad un passo. Una soluzione ci sarebbe: una donna, super partes, stimata da tutti e che ha dato ottime prove quando era prefetto, e che si è comportata bene anche come ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. Una soluzione di buon senso, per la quale le forze responsabili, se ancora esistono, dovrebbero battersi con tutte le loro forze, anche con incoraggiamenti di campagne stampa, ad opera dai grandi media.