Molto più che il marito di Beyoncé
La telecamera inquadra un uomo al quale evidentemente è stato riservato il posto d’onore. Sorseggia una bibita e dietro gli occhiali scuri, quasi d’ordinanza, non lascia trasparire alcuna emozione. Lo sguardo è fiero e sembra scrutare tutti dall’alto verso il basso. Shawn Carter, questo il suo nome, è in attesa. A breve la moglie si esibirà sul palco allestito all’interno del Superdome di New Orleans, dove si disputa la finale del Super Bowl tra Baltimore Ravens e San Francisco 49ers. Di recente, in piena campagna elettorale, Barack Obama e Shawn Carter si sono incontrati in più occasioni. E in una delle tante, il presidente statunitense ha osservato, tra il serio e il faceto, quanto le rispettive mogli fossero più famose. Solo che il siparietto si è tenuto in un locale, il 40/40 Club di New York, di proprietà di Carter.
Il nome Shawn Carter ai più dirà poco. Per la maggior parte delle persone lui è Jay-Z. L’equivoco si crea quando bisogna far presente, e capita sovente, che Jay-Z è il marito di Beyoncé.
L’immagine pubblica di Shawn Carter emerge su larga scala nel 2005. Non grazie a Beyoncé, con la quale si era fidanzato tempo prima, ma perché in quell’anno diviene presidente della più prestigiosa etichetta hip hop, la Def Jam. Per intenderci: ciò che la Motown è stata per il soul, la Def Jam lo è stata (e lo è) per il rap.
All’epoca Jay-Z è un personaggio già noto. È considerato uno dei migliori rapper di sempre (secondo Mtv migliore persino delle leggende Tupac e Notorious B.I.G.) e nel 2003 la letteratura specializzata gli riserva un trattamento privilegiato dopo l’annuncio del ritiro dalle scene. The Black Album, uscito il 14 novembre, sarebbe dovuto essere il suo ultimo lavoro. In seguito il disco verrà remixato e riproposto in tutte le salse, dal Grey Album di Danger Mouse, al Brown Album di Kev Brown, passando per le rivisitazioni – alcune anche a distanza di anni – di Pete Rock o del trio spagnolo Cookin’ Soul. Senza dimenticare il progetto Collision Course in collaborazione con i Linkin Park, contenente diversi brani estratti dal Black Album. In verità nel 2004 è di nuovo fuori, sebbene in una produzione a quattro mani con R Kelly. I due bissano l’esperimento Best of the both worlds del 2002 ed è un discreto successo. Peccato che litighino durante il tour, quindi annullato anzitempo.
Per entrare nel personaggio occorre però un ulteriore passo indietro. La vita di Shawn Carter (viene al mondo il 4 dicembre 1969, come ci informa in December 4th) è la tipica espressione della strada (Brooklyn, in particolare) che si materializza nella musica. Di storie da raccontare ne ha molte: i problemi in famiglia, la violenza, lo spaccio di droga ai tempi della scuola. È l’archetipo del rap, il gangster che decide di mettere in rima la crudeltà quotidiana. Ma c’è una differenza tra lui e gli altri. Gli altri entrano ed escono di galera e di tanto in tanto sfornano qualche metrica, lui invece prende subito coscienza di essere una potenziale macchina da soldi. Sono gli anni della golden age dell’hip hop e della faida che vede contrapposte East e West Coast, ma Shawn decide di starsene alla larga. In verità il proposito gli riesce in parte, data l’amicizia che lo lega al vecchio compagno di scuola Notoriuos B.I.G. e al produttore Sean Combs (Puff Daddy, all’epoca). Carter partecipa in Life after death (1997) di Notorious nel brano I love the dough, ma precedentemente (e a parti invertite) avevano collaborato nel pezzo Brooklyn’s Finest in cui rivolgono qualche parolina di troppo a Tupac (quest’ultimo ricambierà in Bomb First). È il 1996, l’anno di debutto per Jay-Z con Reasonable Doubt. Dopo essersi sbattuto nell’underground newyorkese decide dunque che è giunto il momento del grande salto. E lo fa nel suo stile perché Shawn, per cominciare, non vuole firmare per un’etichetta, anche fosse la più prestigiosa. Lui fonda un’etichetta. Ecco svelata una seconda differenza tra lui e gli altri. Molti artisti hip hop si sentono arrivati al primo contratto, ma non Carter. Per capirne la filosofia è sufficiente ascoltare Reasonable Doubt, che ottiene presto i favori del pubblico e della critica. L’album è l’impronta del suo credo, dell’hustler, ovvero di colui che si dà da fare.
La Roc-A-Fella Records viene creata verso la seconda metà degli anni ’90 insieme ai soci Damon Dash e Kareem “Biggs” Burke. Il nome Roc-A-Fella è riconducibile ad un gioco di parole che richiama i Rockefeller, il che la dice lunga sulle intenzioni del trio. In poco tempo la scuderia ingaggia tra i più bravi artisti emergenti (Memphis Bleek, Beanie Sigel, Freeway e a seguire i più conosciutii M.O.P. oltre che l’astro nascente Kanye West) e si afferma immediatamente quale punto di riferimento della scena hip hop americana. Nel frattempo prosegue anche la carriera solista di Shawn, il quale mostra una solida sensibilità musicale collaborando con gente del calibro di Lenny Kravitz, Chris Martin dei Coldplay e Justin Timberlake. Con lui ci sono poi i fedelissimi, tipo Pharrell Williams e Kanye West. Questo fino al 2003. Dopodiché, Carter decide di fare il produttore a tempo pieno. Un po’ come Puff Daddy, che intanto ha cambiato nome d’arte non si sa quante volte.
Senza dubbio il suo più grosso merito è quello di essere riuscito a percepire un disagio musicale e di avere colmato il vuoto che da esso è derivato. Senza Tupac, morto nel ’96, e senza Notorious, ucciso nel ’97, le certezze – sotto l’egida della Death Row e della Bad Boys Records – vacillano e tra i fan c’è sgomento. Non che manchino grandi artisti nelle due coste rivali, ma nel cuore della gente rimangono irrisolte alcune questioni. Come ad esempio designare il nuovo re di New York.
A ripensarci oggi, la sfida a suon di rime, talvolta violente, tra Jay-Z e Nas (anche il secondo era un amico dell’incontrastato re, Notorious) appare una formidabile trovata commerciale. Tra il 1999 e il 2004 se le dicono di tutti i colori, sobillando come al solito spaccature e fazioni. Ma un giorno arriva l’imprevisto. Nas, è il 2005, viene annunciato a sorpresa da Jay-Z durante il concerto I Declare War e i due si esibiscono l’uno al fianco dell’altro davanti ad un pubblico in delirio e rintontito dall’evento. Pace fatta tra i due massimi esponenti della Grande Mela. Poco dopo si verrà a sapere che Nas ha firmato per la Def Jam.
Come Shawn Carter diventa presidente della più famosa etichetta hip hop è abbastanza curioso. Quasi subito la Roc-A-Fella inizia a distribuire gli album dei propri artisti in joint venture con la Def Jam. Sta per scadere il contratto e i tre soci Dash, Burke e Carter trovano un accordo che prevede di fatto il divorzio di quest’ultimo dopo la vendita, pari al 50%, della loro creatura alla Def Jam. Il fatto è che alla Def Jam la soluzione non convince, perché Jay-Z è in procinto di passare alla Warner, sua concorrente, con una nuova etichetta. Così gli offrono la presidenza della label, che lui accetta. E non abbastanza pago, alla fine Carter terrà per sé il marchio Roc-A-Fella a scapito di Damond Dash e Biggs Burke. Un anno più tardi si prende addirittura il lusso di tornare in pista e pubblica l’album Kingdom Come: il titolo riassume bene.
Da presidente e ceo della Def Jam, “l’acquisto” di Nas – con il quale si era insultato fino al giorno prima – è oltremodo il suo capolavoro. Ma è sempre a lui che dobbiamo la scoperta e l’affermazione di una star internazionale come Rihanna. Il balzo nel mondo dell’imprenditoria, però, si compie non appena Shawn inizia ad allargare i propri orizzonti. È un passaggio quasi scontato, anche perché da alcuni si era dato all’abbigliamento con la Rocawear. Si tuffa in seguito nel marketing e nello sport, diventando comproprietario della squadra di basket dei New Jersey Nets (che lui trasferirà a Brooklyn).
La vigilia di Natale del 2007, a tarda ora e in modo un po’ inusuale, la Def Jam comunica che a partire dal 31 dicembre Jay-Z non ne sarà più il presidente. Non è l’inizio del declino, come qualcuno comincia a supporre. Nell’aprile del 2008, infatti, si allea con la Live Nation (tra i maggiori distributori di biglietti per concerti) e dà vita alla Roc Nation, la sua nuova etichetta. Shawn Carter è ormai un uomo di successo, ricco (il suo patrimonio è spropositato, non contando i compensi della moglie Beyoncé) e si conferma un abile stratega che sa cosa prendere e quando lasciare. Forbes lo annovera tra i paperoni della musica e tra i più influenti al mondo: è il re, ma non nel senso di una specifica collocazione geografica, tipica di molti artisti hip hop. Per lui sarebbe una visione troppo miope. Shawn scruta un orizzonte che va ben oltre la sua New York.
Tuttavia non appartieni all’olimpo della musica se prima non ti appioppano un qualche alone di mistero. Da Elvis a Michael Jackson, sempre è stato così. E Jay-Z, a sentire le strambe teorie cospirazioniste, sarebbe – al pari di Rihanna e di Kanye West – un affiliato degli Illuminati. E lo sarebbe stato già ai tempi di Reasonable Doubt. Appare del tutto evidente, a detta dei fautori del complottismo, nel brano D’evils (Dear God, I wonder can you save me / Illuminati want my mind, soul, and my body / Dear God, I wonder can you save me / Secret society, tryna keep they eye on me / Dear God, I wonder can you save me / Illuminati want my mind, soul, and my body / Dear God, I wonder can you save me / I can’t die, I can’t die, I can’t die). O ancora nelle foto che lo ritraggono mentre fa il triangolo con le mani, che al limite rappresenta il diamante della Roc-A-Fella. Un marchio di fabbrica, diciamo. Ma tant’è.
Shawn è il tipico self-made man americano che puoi incontrare al Bar Pitti di Manhattan e che ti offre il pranzo come regalo di benvenuto a New York. L’ultima, presunta, attività da gangsta è datata 1999, quando secondo testimoni accoltellò in un locale – fortunatamente senza gravi conseguenze – un tale di nome Lance Riviera, professione discografico, reo a suo dire di avere piratato Vol. 3, Life and Times of S. Carter di imminente pubblicazione. Con il trascorrere degli anni le scorribande sono di tutt’altro tenore. Ad esempio dopo la recente visita a Cuba – in occasione del quinto anniversario di matrimonio con Beyoncé – che quasi si trasforma in un caso diplomatico per l’eccessiva pedanteria di due parlamentari repubblicani della Florida (pare che gli sposini d’America non avessero il visto necessario per entrare nell’isola caraibica).
Il 21 gennaio Beyoncé canta – in playback, ammetterà qualche giorno più avanti – l’inno statunitense durante la cerimonia per il secondo insediamento di Obama. Nel frattempo il marito, occhiali scuri quasi d’ordinanza, stringe mani importanti lontano dagli occhi indiscreti delle telecamere. Da vero re.
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