Il sopravvissuto
Da tempo, quando gli si chiedeva come stesse, rispondeva laconico: «Sopravvivo». Lo diceva ormai senza civetteria, convinto che la sua epoca fosse davvero finita. La voce, lo sguardo, il fisico erano cambiati profondamente, dopo i novant’anni. Giulio Andreotti si era come afflosciato: non incurvato ma quasi piegato e svuotato. Le «dita da pivot» che aveva descritto una volta, ammirata, il suo avvocato Giulia Bongiorno, apparivano ossute, quasi adunche: mani da vecchio per quel politico tenebroso, considerato a lungo senza età. L’uomo delle battute fulminee, della memoria di ferro, della puntualità così maniacale che finiva per arrivare in anticipo, era entrato in una sorta di dimensione atemporale. Perfino i due auricolari che portava per compensare la sua sordità senile, e che prima apparivano come un paio di orecchini tecnologici, ora sottolineavano la fatica di ascoltare, capire, forse perfino accettare il mondo che lo circondava; e che non era più il suo. Ma finché è stato vivo, Andreotti ha tenuto artificialmente in vita il mito di una Prima Repubblicacapace di resuscitare, di tornare in auge, di riportare l’Italia a un passato controverso, osservato con una punta di nostalgia da quanti per età lo confrontavano alla crisi di identità di oggi. D’altronde, era il sopravvissuto per antonomasia: a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima e forse anche la Seconda Repubblica. E ancora, a sei processi per mafia e omicidio e ai sette governi che aveva presieduto.
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