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“Come sarà l’Iran di Hassan Rohani”

Intervista a Pejman Abdolmohammadi, professore di Storia e Istituzioni dei Paesi islamici all’Università di Genova
di Mirko Spadoni

hassan_rohani_iranE’ inevitabile non notare le differenze che lo distinguono da chi lo ha preceduto, ma il neopresidente dell’Iran, Hassan Rohani, è un personaggio più complesso di quanto possa sembrare. La sua elezione, come racconteremo nel corso di questa intervista a Pejman Abdolmohammadi, professore di Storia e Istituzioni dei Paesi islamici all’Università di Genova, ci permette di comprendere molte cose sullo stato di salute del Paese iraniano.
Prima di tutto, sottolinea il professore, “parlare di Iran di Ahmadinejād e di Iran di Rohani, come se ci fossero delle differenze reali tra le due cose, è fuorviante”.
“La Repubblica islamica – spiega il professore a T-Mag – è un insieme di oligarchie, le quali dettano la linea politica che reputano migliore per perseguire e raggiungere un unico scopo: far continuare ad esistere la Repubblica islamica stessa. L’Iran, in sostanza, è gestito da tanti centri di potere: il clero, i Pasdaran e i gruppi economici, ad esempio”.
L’elezione di Rohani è infatti funzionale ai piani di chi detiene il potere nel Paese. Basta guardare il suo passato per rendersi conto che l’appena eletto presidente iraniano non è un elemento intenzionato a cambiare lo status quo: “Rohani è una personalità che diventa protagonista ancora prima dello scoppio della Rivoluzione iraniana. Dal 1979 in poi, ricopre ruoli militari. Nei primi otto anni, ha il compito di condurre il processo di islamizzazione delle forze armate. Durante gli anni della guerra contro l’Iraq ha vissuto a stretto contatto con quelli che ora sono i pasdaran. Terminato il conflitto con Saddam Hussein, diventa per 16 anni segretario per il Consiglio Supremo della Sicurezza nazionale. Questo vuol dire che per circa 34 anni di Repubblica Islamica, Rohani ne ha passati 24 ricoprendo cariche all’interno dell’esercito o svolgendo compiti nell’intelligence”.
Eppure nonostante i suoi trascorsi, nonostante sia un uomo perfettamente inserito nella nomenklatura iraniana. Nelle ore immediatamente successive alla sua elezione, molti osservatori esterni hanno accolto questo risultato con entusiasmo, convinti che l’Iran sia davanti ad un cambiamento radicale. “I cittadini che hanno votato Rohani – sostiene il professore – lo hanno fatto per manifestare il loro dissenso nei confronti della Repubblica islamica”.
Ma, spiega Pejman Abdolmohammadi, bisogna guardare più a fondo la questione, senza fermarsi a delle osservazioni superficiali. Solo così facendo si potranno capire i veri piani di Teheran. “Negli ultimi otto anni, Rohani ha sempre ricoperto ruoli di secondo grado all’interno della Repubblica islamica e i dirigenti politici del Paese hanno pilotato e diffuso l’idea che Rohani fosse l’espressione di un Iran diverso da quello di Ahmadinejād”.
“Questo – prosegue il professore – è il gioco della Repubblica islamica. L’Iran, fino a poche ore prima dell’elezione di Rohani, era una nazione isolata. E così Teheran ha deciso di dare al potere un volto sorridente e decisamente più rassicurante di Ahmadinejād. In sostanza, sono d’accordo con gli aggettivi usati per descrivere Rohani: abile comunicatore, astuto diplomatico”.
Perché Teheran ha deciso di abbandonare la linea adottata nel corso della presidenza Ahmadinejād? Semplice, perché l’Iran è ormai un Paese isolato e che vive momenti delicati. Del resto, racconta il professore, “le sanzioni imposte dalle forze internazionali cominciano ad avere le loro ripercussioni sulla popolazione. Le classi medio basse della società iraniana, che hanno sempre legittimato la Repubblica islamica e la Rivoluzione, ora cominciano ad essere insofferenti. Dall’altra parte, tocca sempre tener conto della società civile (donne e giovani) che nei confronti della Repubblica Islamica è sempre stata molto critica. Teheran ha capito che bisognava cambiare e l’ha fatto. Con Rohani, chi detiene il potere cerca di allentare la pressione internazionale e ridurre il malcontento interno”.
Dopo la repressione subita nel 2009, a seguito delle proteste per l’elezione di Ahmadinejād e “il fallimento del tentativo di scardinare un sistema autoritario”. Una buona parte della popolazione si è recata alle urne, un’altrettanta buona parte, invece, ha preferito non votare.
Gli ultimi anni, caratterizzati da un inasprimento della repressione nei confronti dei dissidenti, sono stati segnati anche da un atteggiamento d’insofferenza sempre maggiore nei confronti del potere.
“Nonostante l’alta affluenza, una parte degli elettori – sottolinea il professore – non si è comunque recata alle urne e lo ha fatto in segno di protesta nei confronti di un sistema, che nel 2009 ha represso nel sangue le manifestazioni di dissenso per la vittoria di Ahmadinejād”.
Ma oltre a questo Rohani dovrà affrontare un’altra delicata questione: il programma nucleare, che Teheran sta portando ormai avanti da anni. Quanto influirà il suo parere? O sarà ancora l’ayatollah Ali Khameini a decidere se Teheran dovrà proseguire sulla strada intrapresa? “Le decisioni – spiega il professore – non vengono prese solo dall’ayatollah. Diciamo che il suo parere in merito alle diverse questioni conta, ma non è l’unico. A volte, ha dovuto fare dei passi indietro. Tutto questo perché l’Iran, ricordiamo, è gestito da diversi centri di potere come i Pasdaran, ad esempio.
Insomma, il risultato elettorale del 14 giugno dimostra che Teheran è riuscita nel suo obiettivo: guadagnare tempo, allentare le pressioni esterne e ridurre (almeno momentaneamente) il malcontento popolare. Tuttavia non è ancora detta l’ultima parola, “non è da escludere infatti che l’opposizione (i giovani sotto i 35 anni, intendo) possa un giorno uscire fuori dal controllo della repressione. Al momento non hanno alcun peso politico. In sostanza, non sono ancora così influenti come tanti altri centri di potere. Ma – conclude il professore – non è detto che questo non accada nei prossimi quattro, cinque anni o più in là”.

 

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