La situazione in Siria, cosa c’è in ballo
Raccontare cosa sta accadendo in Siria non è cosa semplice. Dal 15 marzo del 2011, in questa porzione di Medio Oriente è in atto una guerra civile che vede protagonisti il regime di Bashar al Assad da una parte e i suoi oppositori dall’altra. Ma non parliamo solo di una lotta tra chi detiene il potere e chi invece vuole cambiare lo status quo. C’è molto altro, in Siria. In questo conflitto giocano un ruolo fondamentale Paesi come gli Stati Uniti, la Russia e l’Iran. Movimenti come il libanese sciita Hezbollah (schierato al fianco di Damasco) e gruppi di fondamentalisti islamici jihadisti come l’organizzazione siriana Jabhat al Nusra, che proprio qualche giorno fa è stata inserita dall’Home Office (il ministero degli Interni inglese) nella lista delle organizzazioni terroristiche riconosciute da Londra. In oltre due anni di confitto, le persone che hanno perso la vita sono oltre 100 mila, di queste 36 mila sono civili (dati Syrian Observatory for Human Rights), mentre secondo le stime dell’Onu le vittime sono: 92.901. Anche se, come ha sottolineato l’Alto commissario per i diritti umani Navi Pillay, i dati sono probabilmente “sottostimati”. Sottostimato, così come il numero delle persone che sempre secondo l’Onu quotidianamente perdono la vita a causa del conflitto: 5.000.
Ci sono poi tutti quei siriani che hanno preferito lasciare le loro case per cercare rifugio nei Paesi confinanti: 376.631 in Turchia, 153.355 in Iraq, 488.196 in Giordania, 490.193 in Libano e 71.299 in Egitto (fonte Uhcr, aggiornata al 27 maggio scorso). Un numero impressionante, cresciuto sicuramente nel corso di questi due mesi, basti pensare che secondo quanto sostiene l’Onu il numero dei profughi siriani aumenta ad una media di 6.000 unità al giorno.
Questi sono gli effetti principali di un conflitto nato sull’onda della primavera araba, ma che a differenza di quanto accaduto in altri Paesi non ha ancora trovato un suo epilogo. Cosa permette a Damasco di resistere così a lungo all’offensiva dei ribelli? Per capirne qualcosa di più abbiamo contattato Stefano Torelli, ricercatore dell’ISPI (l’Istituto per gli studi di Politica internazionale).
“Il regime di Assad – spiega a T-Mag Torelli – ha dalla sua una serie di elementi che concorrono a renderlo ancora relativamente forte. Prima di tutto, dal punto di vista interno, la sua apparente compattezza. A differenza di quanto accaduto in altre piazze della rivolta araba, dalla Tunisia all’Egitto, fino in parte alla stessa Libia, il nucleo centrale del regime non si è spaccato e ha mostrato fedeltà ad Assad. Ciò è in parte spiegabile con il tipo di relazioni che caratterizzano il regime al suo interno: un regime che si basa su forti legami di tipo clanico e familiare (la famiglia Assad e la stretta cerchia degli alawiti), che ne fanno un attore compatto e difficilmente divisibile. In secondo luogo, e in maniera quasi speculare, assistiamo a un’opposizione molto frastagliata, in cui vi sono molte anime spesso con obiettivi di lungo termine opposti tra loro (opposizione secolare, riformista, curda, islamista…), che rende il fronte dei ribelli più debole. Infine, si constata il sostegno che Assad ancora continua a ricevere da parte di alcuni attori internazionali di primo piano, primo tra tutti la Russia”.
Nel giugno scorso, l’Onu ha lanciato un’accusa gravissima sia nei confronti del regime che dei ribelli: in Siria, entrambi gli schieramenti hanno compiuto crimini di guerra. C’è Le Monde, che ha denunciato l’uso di armi chimiche da parte delle forze leali a Damasco. Denunce durissime, che in passato avrebbe spinto le potenze occidentali ad intervenire materialmente nel conflitto o perlomeno le avrebbe indotte a cercare informazioni più dettagliate (per inciso: proprio in questi giorni, una commissione speciale dell’Onu, guidata da Oke Selstrem e dall’Alto rappresentante dell’Onu per il disarmo, Angela Kane, si recherà su invito di Damasco in Siria per indagare sull’eventuale uso di armi chimiche). Eppure, nonostante gli Stati Uniti e la Francia hanno più volte espresso le proprie preoccupazioni, proponendo possibili soluzioni (con Obama che chiedeva di fornire armi ai ribelli e di organizzare una “no fly zone limitata” per proteggere i rifugiati e Hollande che invitava la comunità internazionale ad “agire nel quadro della legalità internazionale”), le grandi potenze della Terra (comprese Washington e Parigi) si sono riunite nella cittadina irlandese di Lough Erne per il G8 e qui hanno raggiunto un’intesa proprio in merito alla guerra civile siriana: “Rimaniamo impegnati – spiegavano i leader, al termine del vertice – a raggiungere una soluzione politica della crisi siriana”. Quindi niente intervento militare come accaduto in passato e in altri contesti (come in Libia, ad esempio). E allora il conflitto siriano è rimasto un affare che vede contrapposti sul campo di guerra solo e almeno in apparenza il regime di Assad, i suoi fedeli e i ribelli. Ma da chi è composta l’opposizione?
“Il fronte dei ribelli – spiega Torelli – è più che mai composito. Pressoché tutte le istanze sono rappresentate all’interno dell’opposizione: da quelle di tipo ‘nazionalista’ dei curdi, a dei movimenti e partiti di opposizione più secolari, che combattono per il rispetto dei diritti politici, fino, appunto, alla galassia dell’Islam politico. Quest’ultimo è a sua volta diviso tra coloro che possono essere ricondotti alla Fratellanza Musulmana (in Siria bandita fin dai primi anni Ottanta) e i gruppi più radicali e di estrazione jihadista. E’ nelle file di questi ultimi che si stanno infiltrando diversi combattenti stranieri, che provengono per lo più dal Maghreb (Tunisia e Libia in testa) e dai Paesi del Golfo, ma anche dall’Europa stessa”.
La Siria ricopre una posizione territoriale strategica nel quadro mediorientale: il Paese confina infatti con Turchia, Israele, Libano, Giordania e Iraq. E’ inevitabile quindi chiedersi quali sono gli interessi in questo conflitto dei Paesi confinanti. “Ogni Paese presente nella regione – sottolinea Torelli – ha i propri interessi e reagisce in maniera particolare alla crisi che sta attraversando la Siria. Prima di tutto dobbiamo considerare che tutti i Paesi citati sono toccati direttamente dalla guerra in Siria, per via del grandissimo flusso di rifugiati che si è riversato – e continua a riversarsi – all’interno dei Paesi confinanti. Quella dei rifugiati ha assunto le caratteristiche di una vera e propria emergenza umanitaria, cui i soli Paesi interessati non riusciranno più a far fronte da soli, senza l’aiuto dell’Occidente. Detto ciò – prosegue Torelli – le conseguenze maggiori si riversano sul Libano, la cui storia politica è da sempre legata a doppio filo con i destini della Siria. Nei fatti, si potrebbe quasi affermare che il Libano è già coinvolto nella crisi siriana. Le milizie sciite di Hezbollah combattono in Siria a fianco delle forze del regime e, come dimostrato dall’autobomba che ha colpito Beirut solo pochi giorni fa, c’è il rischio di un’estensione del conflitto in Libano”.
Ci sono inoltre la Turchia di Erdogan, che deve fare i conti con il fallimento della politica estera ‘zero problemi con i vicini’ del ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, e Israele. “Ankara – osserva Torelli – aveva scommesso molto sui suoi rapporti con la Siria nell’ambito della sua politica regionale e, adesso, deve fare i conti con un regime ormai nemico ai propri confini”.
Mentre “Israele, formalmente ancora in guerra con la Siria, aveva trovato in Assad un ‘nemico conosciuto’ e, in qualche modo, aveva imparato a convivere con lui. Ciò che si chiedono a Tel Aviv è cosa potrà accadere dopo? E le incognite che gravano sul futuro della Siria inevitabilmente preoccupano anche Israele. La guerra in Siria ha le potenzialità per sconvolgere gli equilibri di tutta la regione mediorientale”.
Tra i fattori che permettono al regime di Damasco di contenere l’offensiva dei ribelli non vi solo la coesione del gruppo di potere centrale, ma anche il supporto di alcuni Paesi stranieri come la Russia, la Cina e l’Iran. Un supporto che si traduce anche in un sostegno economico notevole: secondo quanto riferito dal vice primo ministro dell’Economia siriano, Kadri Jamil, in un’intervista al Financial Times, Mosca, Teheran e Pechino girano a Damasco ben 500 milioni di dollari al mese. “Ma – spiega Torelli – a livello di interessi materiali e strategici, è la Russia, piuttosto che la Cina, a essere maggiormente interessata”.
“Assad – sottolinea infatti Torelli – rappresenta l’alleato principale di Mosca in Medio Oriente; in Siria la Russia ha la sua unica base navale sul Mediterraneo (a Tartus) e la Siria è uno dei più fedeli acquirenti delle armi prodotte dalla Russia. La fine di Assad vorrebbe dire una notevole perdita di influenza in Medio Oriente per la Russia. Senza pensare alle connessioni che vi sono tra il fronte ribelle jihadista anti-Assad e il jihad dei Ceceni contro il governo di Mosca. Per alcuni versi – conclude Torelli – i nemici di Assad e della Russia sono gli stessi”.
La situazione non è destinata a risolversi a favore di una parte o dell’altra, almeno nel breve periodo. Quindi non è possibile fare ipotesi su quali scenari si potrebbero venire a creare in Siria. “E’ davvero prematuro, adesso, fare previsioni su chi potrebbe prevalere e su quali scenari potrebbero aprirsi”, sostiene Torelli. “In entrambi i casi, purtroppo, si verificherebbe una situazione molto instabile: se dovesse avere la meglio il regime di Assad, c’è da attendersi che tutti gli elementi dell’islamismo radicale presenti oggi in Siria faranno di tutto per combattere il governo, come è accaduto in Iraq a seguito dell’intervento statunitense del 2003. Allo stesso tempo, qualora Assad dovesse cadere, si creerebbe – sottolinea Torelli – un vuoto politico difficile da colmare e in cui tutti gli attori attualmente uniti dalla sola opposizione al regime, si troverebbero l’uno contro l’altro. Alcuni segnali in tal senso già si sono avverati: si pensi all’omicidio di uno dei leader dell’Esercito Libero della Siria, Kamal Hamami, da parte di membri jihadisti. E’ già in atto, sul fronte dell’opposizione, una guerra nella guerra”.