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Barack Obama e il Medio Oriente

Intervista a Mario Del Pero, professore di Storia e Istituzioni dell’Americhe all’Università di Bologna
di Mirko Spadoni

barack_obamaSe dipendesse solo da lui, gli Stati Uniti sarebbero già intervenuti militarmente in Siria. Troppo grave è, secondo il presidente Barack Obama, quanto accaduto il 21 agosto a Ghouta, periferia est di Damasco, quando un attacco con armi chimiche (la cui paternità sarebbe da attribuire alle forze leali al regime di Assad) ha causato – secondo l’intelligence statunitense – la morte di “almeno 1.429 persone, tra cui 426 bambini”.
Il governo siriano avrebbe così varcato la linea rossa che Washington aveva tracciato poco meno di un anno fa. “Siamo stati estremamente chiari col regime di Assad, ma anche con gli altri soggetti in campo: per noi – aveva detto Obama – c‘è una linea rossa. Se si cominciassero a veder circolare, se venissero utilizzate armi chimiche i miei calcoli cambierebbero”.
Eppure, pur essendo consapevole di essere il comandante in capo delle Forze armate e di avere quindi l’autorità per ordinare un attacco, il presidente statunitense ha deciso di chiedere l’autorizzazione del Congresso, chiamato ad esprimersi in merito prima e non oltre il 15 settembre.
Una scelta che ha lasciato perplessi alcuni, ma che deve essere inserita in contesto ben più ampio, quello della politica mediorientale adottata dall’amministrazione Obama.
Per capirne qualcosa di più, T-Mag ha intervistato Mario Del Pero, professore di Storia e Istituzioni dell’Americhe all’Università di Bologna. “In Siria – spiega Del Pero – ha pesato l’estrema ostilità di una chiara maggioranza dell’opinione pubblica statunitense ad appoggiare nuove guerre, ancorché limitate, in Medio Oriente e l’assenza d’interlocutori forti e affidabili nel variegato fronte anti-Assad”.
Ma la crisi siriana è solamente l’ultima delle delicate situazioni createsi in Medio Oriente dal 2008 (anno dell’insediamento a Washington di Obama) in poi. Non bisogna dimenticare, ad esempio, le primavere arabe e la guerra in Libia. Situazioni estremamente diverse (segnati da episodi anche molto gravi: basti pensare all’assassinio dell’ambasciatore statunitense a Bengasi, Chris Stevens), ma con le quali gli Stati Uniti si sono dovuti comunque confrontare, reagendo non sempre allo stesso modo. Nel caso dell’uccisione di Stevens, che “avvenne nel mezzo della campagna elettorale”, “la discussione che ne conseguì – sottolinea il professore – ne risultò molto condizionata, dai tentativi repubblicani di strumentalizzare la questione e dall’impegno dei democratici a sottacerne alcuni aspetti”.
E’ andata diversamente in Egitto, dove “da un lato si è cercato – sostiene il professore – di assecondare un processo storico, di parziali liberalizzazione e democratizzazione, che si riteneva inarrestabile e dall’altro di condizionarlo, evitando ingerenze troppo forti e palesi che potevano essere controproducenti, alimentare reazioni anti-americane e finire per danneggiare tale processo”.
Ma quando si parla di Medio Oriente e Stati Uniti non bisogna dimenticare una cosa: in questa parte del mondo gioca un ruolo da protagonista uno degli alleati più importanti di Washington, Israele. Due Paesi legati da una forte amicizia, che è restata tale anche sotto l’amministrazione Obama. Di questo, il professore Del Pero ne è assolutamente convinto: “Almeno dalla campagna del 2008, Obama ha cercato in tutti i modi di attenuare le sue originali critiche nei confronti d’Israele e di accreditarsi come fidato e leale amico dello stato ebraico. Basta rileggersi su questo i suoi due interventi alle conferenze dell’Aipac. In termini di politiche e azioni, faccio davvero fatica a individuare un’amministrazione poco sensibile agli interessi di sicurezza d’Israele: gli aiuti militari a Israele sono rimasti immutati; la reazione a dichiarazioni e atti del governo Netanyahu chiaramente contrari agli interessi americani sono state assai tiepide. Dopodiché – sottolinea il professore – fa gioco sia a Tel Aviv sia agli oppositori del presidente presentare Obama come insufficientemente filo-israeliano perché offre loro uno strumento di pressione sul presidente stesso. Quando discutiamo del processo di pace israelo-palestinese e di ruolo degli Usa credo però il problema siano gli interlocutori, palestinesi e, a questo punto, anche israeliani, assai più che gli Usa e chi li guida”.
Detto tutto ciò, è possibile tracciare una linea e trovare una logica in quanto fatto e deciso dall’amministrazione Obama in Medio Oriente? In parte si può, sostiene il professore: “Se poi davvero vogliamo trovare dei fili che leghino queste vicende, dei comuni denominatori, questi stanno da un lato nella minor centralità geopolitica del Medio Oriente per gli Stati Uniti e dall’altro nel rigetto da parte dell’America delle categorie e delle pratiche interventiste che hanno contraddistinto i primi quindici anni del dopo Guerra Fredda. La prima consegue sia alla riduzione della dipendenza degli Usa dal petrolio mediorientale sia alla decisione di alzare la soglia dell’impegno in Asia. Sul secondo – conclude Del Pero – pesano i fallimenti dell’era Bush e gli effetti della crisi economica del 2007-2008, che come spesso è accaduto nella storia statunitense hanno alimentato la richiesta di concentrarsi più sui problemi interni e meno su quelli del resto del mondo”.
“Da storico – conclude Del Pero – non posso che sospendere il giudizio e aspettare quella distanza temporale e quella disponibilità documentaria che permettano un commento equilibrato e informato. Da osservatore vedo successi e fallimenti: tra i primi sicuramente la capacità di ripristinare un’immagine degli Usa pesantemente danneggiata dagli eccessi di Bush e dalla retorica, nazionalista e binaria, che li aveva accompagnati; e, anche, un certo successo nel gestire la rete d’interdipendenze più complessa, delicata e contraddittoria del sistema internazionale corrente, quella tra Cina e Stati Uniti. Tra i fallimenti, l’incapacità di abbandonare alcune delle pratiche più discutibili ereditate da Bush – penso a Guantanamo ancora aperta o all’attività spionistica rivelata di recente – o la scarsa attenzione dedicata sia ai rapporti transatlantici che a quelli con l’America Latina. Sul Medio Oriente, lo confesso, faccio davvero fatica a capire che cos’altro Obama avrebbe potuto fare stante l’intrattabilità di molti dei problemi regionali, l’inaffidabilità degli interlocutori locali e la decresciuta leva di cui gli Usa dispongono per condizionare le questioni della regione”.

 

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