Uomini che odiano gli alberi
È accaduto, pochi giorni fa, a Roma, a pochi passi dalla sede della Regione Lazio, non in una estrema periferia: 60 alberi da frutto, piantati dai cittadini del quartiere, sono stati segati. Un gesto che va oltre al semplice atto vandalico o dalla bravata di qualche squilibrato. In questo caso non serve semplificare quanto, piuttosto, capire uscendo da luoghi comuni e banalizzazioni. Ancor più grave perché colpisce un’area che è stata recuperata e allestita come orto urbano proprio per volontà dei cittadini e del circolo di Legambiente, sottraendola al degrado e all’abbandono.
Fa riflettere perché la violenza è stata esercitata in modo chiaro, premeditato e con l’intenzione di dare un segnale: gli alberi e l’ambiente non li vogliamo.
Un fatto che, purtroppo, non è isolato ma testimonia una grave disattenzione e l’ostilità nei confronti di chi desidera vivere diversamente la città, recuperando spazi verdi, aumentando le occasioni per creare un rapporto con l’ambiente e il bene comune.
Avviene in Italia, nel 2013, un paese in crisi, non solo economica ma, soprattutto, sociale, dove le spinte verso una chiusura dell’idea stessa di spazio comune, condiviso e inclusivo, danno forza a idee fondate sull’egoismo, sulla contrapposizione, sul contrasto. Dove, da mesi, il dibattito politico è incentrato sull’abolizione dell’IMU piuttosto che su misure capaci di innovare e restituire competitività al sistema economico.
Non a caso siamo il paese dove, fino a poco tempo fa, si proponeva di mettere in vendita le spiagge, di chiudere parchi e aree protette, di tagliare le poche risorse disponibili per la tutela e la conservazione dell’ambiente: un paese dove era facile ascoltare l’affermazione “con la cultura non si mangia”. Siamo il paese che nell’Unione europea detiene il record di infrazioni comunitarie in materia ambientale, continuando in una logica legata alla deroga e alla sanatoria piuttosto che a misure strutturali; afflitti da infiltrazioni criminali che gestiscono, queste si con efficienza e capacità manageriali, un business florido.
Gli alberi di Garbatella, a Roma, come i tanti siti archeologici, come i musei e i centri storici: si è innescato un graduale ripiegamento e abbandono di quelle che sono definite, troppo spesso solo a parole, come le ricchezze e le meraviglie che rendono l’Italia un paese unico al Mondo, capace di competere e attrarre turismo. Da anni siamo in corsa nel coniare definizioni: giacimenti culturali, parchi ricchezza italiana, … , eppure si muove ben poco e l’immagine complessiva resta quella di un paese precario e bloccato nell’emergenza senza fine.
Un abbassamento della guardia che è culturale e politico, con una direzione del paese che è spinta dall’urgenza e dalla ricerca di soluzioni provvisorie, incapaci di vedere in prospettiva: questo il motivo per cui si sceglie sempre di porre a un livello marginale e secondario l’investimento in ambiente e cultura, ritenendolo un investimento improduttivo, con pochi effetti su reddito e occupazione.
Siamo, del resto, il paese dove i movimenti verdi sono rimasti in una fase embrionale, legati a personalismi e slogan velleitari, senza mai riuscire a compiere l’evoluzione di diventare forza di governo, promuovendo una classe dirigente nuova e competente.
Servirebbe un cambio di paradigma, che fosse capace di collocare l’ambiente e la cultura in un ambito strategico che indirizzi la politica economica, un superamento della logica che pretende di separare la tutela del patrimonio collettivo dalle prospettive di sviluppo. Significherebbe uscire dalla trappola che vede l’ambiente come un intralcio e continua a credere che sviluppo e crescita siano sinonimi.
Purtroppo restiamo ostaggi della trappola: far crescere un bosco richiede centinaia di anni, per bruciarlo o tagliarlo bastano poche ore; conservare un sito archeologico unico al mondo richiede impegno e competenza, lasciarlo nell’abbandono e nell’incuria può sembrare una scorciatoia.
Servirebbe un decreto “del fare” per recuperare tutto il patrimonio pubblico che giace in uno stato di degrado e restituire dignità all’idea che lo sviluppo si basa sulla manutenzione e la cura dell’ambiente, dei beni culturali, del paesaggio: un decreto del “buon governo”, per far ripartire un’economia capace di promuovere la qualità dello sviluppo.
Il Mezzogiorno, ma non solo quello, avrebbero bisogno di un programma di governo in grado di superare le emergenze, ormai croniche, per recuperare normalità e legalità, partendo proprio dalla gestione e dalla tutela dei beni pubblici, affrontando in modo strutturale i problemi causati da decenni di incuria e disattenzione. A chiederlo è l’Unione europea e oggi siamo alla vigilia del nuovo periodo di programmazione 2014-2020: sarebbe una buona occasione per uscire dal facile ritornello degli slogan, come la tanto decantata green economy, per innestare un modello di sviluppo concreto, fatto di programmi concreti, con obiettivi e responsabilità ben precisi.
In un altro paese gli alberi tagliati o un bosco dato alle fiamme sarebbero un caso meno isolato, da non imputare al piromane di turno (che piromane non è) ma al rigurgito criminale di chi vuol negare all’Italia un futuro. Se non si vuole farlo oggi è un dovere farlo per le generazioni che verranno.
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