Uno schiaffo a famiglie e imprese
Questa crisi, voluta da Berlusconi, è una storia di straordinaria follia. L’ultimo segmento del progressivo dissolvimento dei poteri e confini della politica. Il down rating morale e civile di un Paese, che dopo aver coltivato il grande sogno di un nuovo miracolo, si ritrova nuovamente nel tunnel di incertezza da cui sembrava, faticosamente, iniziare a uscire.
Non c’è “politica”, in questa crisi. E per molti versi è proprio la sua assenza a renderla incomprensibile al buon senso. Così come non c’è “economia”, subordinata a interessi che di “comune” hanno ben poco. C’è, invece, il distacco definitivo tra il Paese reale, costretto ogni giorno a presentare i suoi conti, e il Paese legale incapace di ascoltarne i drammi e di accoglierne i bisogni. Qualunque siano gli esiti di questo nuovo terremoto, la questione non è se conviene tornare al voto subito, andare avanti qualche mese con un governo tecnico, oppure tentare l’esperienza di una nuova maggioranza parlamentare. Perché il dramma che si sta consumando in queste ore è nel colpo inferto alle famiglie, alle imprese, ai giovani. Ai quali è stato detto, inequivocabilmente, che i loro problemi sono subordinati a una lista d’attesa surreale, lontana anni luce dagli affanni di un Paese stremato e senza riserve d’energia. Un Paese dove il contatore dei fallimenti gira a velocità massima, dove il numero delle famiglie povere o quasi povere, in pochi anni, è pressoché raddoppiato e dove diminuiscono i redditi e si amplificano le disuguaglianze. Se l’aumento dell’Iva era una bomba a orologeria lanciata nelle retrovie di una ripresa probabilmente troppo fragile per sopportarne l’onda d’urto, l’idea di disennescarla con un’esplosione ancora più potente rischia di mettere il Paese definitivamente in ginocchio.
Anche perché, le fragili attese di una ripresa economica sono inevitabilmente legate all’affidabilità dell’Italia e alla sua capacità di recuperare una “good reputation” verso gli investitori straneri. E la crisi politica che si è aperta mette in contabilità negativa anche quest’obiettivo. D’altronde, chi si occupa di selezionare i Paesi in cui realizzare gli investimenti, ha bisogno di avere garanzie di stabilità, buona gestione, trasparenza. E i problemi dell’Italia, contrariamente a quanto si crede, non sono la rigidità del mercato del lavoro o la forza del sindacato, ma la scarsa affidabilità, la burocrazia asfissiante, la corruzione, l’incertezza. Le autorizzazioni necessarie a realizzare un investimento industriale a normale sensibilità ambientale, per esempio, in Italia possono richiedere oltre tre anni e autorizzazioni da parte di oltre 15 uffici pubblici, mentre in altri grandi Paesi il tempo necessario è meno di un terzo e gli uffici coinvolti si contano sulle dita di una mano. Da noi la corruzione è percepita come un male endemico, figlia di un sistema che elude la legge, mentre altrove, pur presente, è vista come un nemico in agguato ma che si combatte con la forza del diritto e gli strumenti della sanzione giuridica.
E c’è l’incertezza determinata dai cambi d’indirizzo politico che spesso stravolgono, in pochi mesi, il punto di ritorno d’investimenti che richiedono invece anni per diventare profittevoli. L’Italia non è considerata un affare per chi vuole investire. E questa nuova crisi azzera i deboli miglioramenti faticosamente raggiunti negli ultimi due anni. Evidenziando che il problema del Paese non è l’instabilità (una deviazione dalle grandi democrazie europee purtroppo radicata nel nostro sistema politico) ma l’irresponsabilità. Quasi fosse un istinto incastonato nel DNA, che rimane latente fino a quando circostanze particolari lo fanno riemergere e che si trasforma in risentimento verso le stesse istituzioni democratiche.
In queste ore, ancora una volta, l’Italia è vittima di una politica prigioniera di se stessa, il cui arretramento dall’interesse comune non nasce nelle vicende degli ultimi mesi, né nello stallo istituzionale successivo alle elezioni, ma nel progressivo venir meno di quel senso di civile responsabilità che ha lasciato per troppo tempo senza risposta domande che presupponevano un progetto, una prospettiva, una direzione.
Eppure, anche nell’avvitamento che sembra trascinarla verso il basso, solo la politica può offrire la soluzione per uscire dalla crisi di cui è prigioniera, trovando dentro di sé riserve di senso, di speranza, d’impegno.
Non serve un governo a tutti i costi, qualunque esso sia, come non basterebbe una nuova contabilità elettorale se a dargli respiro non c’è una politica consapevole delle sfide che il Paese ha davanti. Ritenere che i risultati elettorali di febbraio scorso siano soltanto l’esito di una protesta “antipolitica” significa non aver capito nulla di quanto è accaduto, perché nelle urne si è espressa soprattutto la domanda di una nuova stagione che prenda le distanze dal passato.
Pur nelle sue contraddizioni, il voto ha dato voce a una società che non vuole arrendersi. E non vuole solo urlare il proprio disagio, ma rafforzarsi nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, l’efficienza del sistema pubblico, l’assistenza ai più deboli, la lotta alle disuguaglianze, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nell’interesse di tutti. Non rispondere a questo bisogno, con scelte politiche coerenti e concrete, significa non offrire alcuna soluzione alla crisi che sta attraversando il Paese. Soprattutto significa andare incontro al rischio concreto che la frattura che si è manifestata nelle urne, esploda nelle piazze, trasformandosi in un drammatico conflitto sociale. Tornare al voto senza le opportune risposte da dare al Paese significherebbe accettare questo rischio, con la possibilità reale di una paralisi analoga a quella che abbiamo già vissuto nei mesi successivi al voto, ma che potrebbe far precipitare l’Italia nella più cupa delle notti. E questa volta senza alibi. Per questo, prima ancora di una nuova legge elettorale, serve una stagione politica da far iniziare subito. Camminando su strade nuove, aperte a quanti vi sapranno guardare con intelligenza, lungimiranza e responsabilità. È proprio la società civile, adesso, a chiedere con forza di far tornare il potere nelle mani della buona politica. Ma bisogna fare in fretta perché il tempo è inesorabilmente scaduto. E il Paese rischia di affondare.
Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 30 settembre. Sfoglia l’indagine Tecnè