“Il petrolio non scarseggia”
Quanto incida il costo del greggio nelle vite dei cittadini, e quanto pesi nelle scelte nazionali e internazionali, è cosa risaputa. Meno note sono però le dinamiche che muovono questo fondamentale mercato. Per questa ragione vale la pena soffermarsi sull’accurata ricerca realizzata dal prof. Leonardo Maugeri, intitolata Oil: the next revolution, i cui sorprendenti risultati sembrano contraddire il pensiero fin ora comunemente accettato. Punto di partenza cruciale di qualsiasi analisi in materia è la ricerca delle cause della continua crescita delle quotazioni del petrolio. Le semplici dinamiche della domanda/offerta e dell’accumulo di riserve di scorta non giustificano infatti un così alto livello dei prezzi (attualmente superiore ai 100$ al barile e stimabile in circa 20/25$ al di sopra del costo marginale di produzione). Solo ragioni di carattere geopolitico, come l’instabilità della regione mediorientale o il rischio di una crisi in Iran, e la convinzione che il petrolio sia una risorsa in esaurimento possono motivare una tale sopravvalutazione sul mercato. Ragioni queste che, secondo lo studio del prof. Maugeri, non sarebbe però supportata dai fatti. Stando ai dati e alle analisi realizzate ad Harvard la produzione petrolifera mondiale potrebbe raggiungere, entro il 2020, i 110,6 milioni di barili al giorno (mdb), con un incremento di ben 17,6 milioni sull’attuale produzione (93 mdb), quota che rappresenterebbe il miglior risultato mai raggiunto dagli anni ’80. Questo straordinario traguardo sarebbe perseguibile grazie allo sviluppo di nuove tecnologie in grado di sfruttare risorse considerate inutilizzabili, come l’estrazione e la lavorazione degli scisti bituminosi, rocce nere di origine sedimentaria ricche di materiale organico non ancora trasformato in petrolio. In particolare, stando ai dati riportati nella ricerca, grazie ai giacimenti presenti nei territori del Texas, del Montana e del Nord Dakota gli Stati Uniti passerebbero dall’attuale produzione di 8,1 mdb ad una di 11,6 mdb, facendo del paese nordamericano il secondo produttore al mondo (dietro all’Arabia Saudita con 13,2 mdb). Questo incremento, unito a quello del Canada (che passerebbe dagli attuali 3,3 mdb ai 5,5 mdb), garantirebbe, secondo il prof. Maugeri, un contributo decisivo anche in eventuale copresenza di una forte battuta d’arresto della produzione iraniana. Il corollario di questo scenario sarebbe una maggiore stabilità del mercato del greggio, derivante, in primo luogo, proprio dalla minore incidenza dei produttori mediorientali. Già dal 2015, infatti, i primi effetti delle nuove tecniche di estrazione dovrebbero portare ad un fenomeno di sovrapproduzione ed ad una conseguente flessione dei prezzi del petrolio. Dal punto di vista geopolitico la rivoluzione introdotta dallo sfruttamento degli scisti bituminosi porterebbe inoltre l’occidente ad una teorica autosufficienza petrolifera, mentre aprirebbe nuovi scenari per i mercati asiatici. L’attuale produzione del Golfo Persico si dirigerebbe infatti verso l’estremo oriente, facendo della Cina il suo principale acquirente. Il complesso quadro dipinto dal prof. Maugeri vedrebbe inoltre comparire sulla scena nuove realtà come il Brasile (con una produzione stimata di 4,5 mdb) o il Venezuela (3,2 mdb), la cui capacità produttiva nel 2020 consentirebbe loro di immettere sul mercato, per pure ragioni economiche, quantità consistenti di greggio. Resterebbero comunque aperti, anche nella migliore delle ipotesi, due ordini di pesanti interrogativi. Da un lato, per usare le parole dello stesso Maugeri, “i problemi reali riguardanti la produzione futura di petrolio sono al di sopra della superficie, non sotto di essa, e si riferiscono a decisioni politiche e l’instabilità geopolitica”. In secondo luogo resterebbe aperta una profonda questione ecologica. Senza un adeguato sviluppo delle tecnologie ambientali e di contenimento delle emissioni lo sfruttamento di petrolio non convenzionale risulterà estremamente complesso. Le tecniche di estrazione più moderne infatti implicano un rischio di inquinamento e di infiltrazione di gas nocivo nelle falde acquifere molto elevato. Sarò dunque necessaria una vera rivoluzione anche nel campo della ricerca ambientale, anche per evitare un continuo scontro tra l’industria e le associazioni ambientaliste che costringerebbe i governi a ritardare o limitare lo sviluppo di nuovi progetti.