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La situazione in Libia

Intervista ad Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale)
di Mirko Spadoni

ali_zeidanE’ l’alba del 10 ottobre e all’Hotel Corinthia di Tripoli i presenti assistono ad una scena inaspettata fino a pochi minuti prima: un commando armato entra nell’albergo e ne esce portando via con sé un uomo, il premier libico Ali Zeidan. Camicia marrone chiaro, capelli rasati color argento e senza i suoi occhiali da vista, il primo ministro viene così rapito per poi essere rilasciato poche ore dopo.
E’ passato qualche giorno, eppure è ancora difficile capire le effettive dinamiche del sequestro. Al momento vi sembra essere una sola certezza: l’azione è stata compiuta da alcuni miliziani della Camera dei rivoluzionari libici, un gruppo ex ribelle islamista inquadrato nel ministero degli Interni, che – nelle ore immediatamente successive al blitz all’Hotel Corinthia – aveva ammesso che il ‘sequestro’ era avvenuto “secondo un ordine di arresto”, eseguito su mandato dal presidente del Congresso nazionale generale, Nuri Abu Sahmain. Versione, quest’ultima, però smentita il giorno seguente dallo stesso Sahmain.
Martedì, il primo ministro ha poi denunciato il coinvolgimento di “cinque parlamentari” nel suo “rapimento”, aggiungendo che più avanti renderà noti i loro nomi, parlando davanti al Congresso nazionale libico. E se i mandanti del sequestro sono ancora sconosciuti, note sono invece le motivazioni.
Solo qualche giorno prima (il 5 ottobre) e sempre a Tripoli, un commando militare statunitense aveva arrestato Abu Anas al Libi, considerato la “mente” degli attentati qaedisti dell’estate 1998 contro le ambasciate americane di Nairobi (Kenya) e Dar es Salam in Tanzania, che causarono oltre 220 morti. Al Libi venne trasferito immediatamente a bordo della Uss San Antonio, in navigazione nel Mediterraneo, per poi essere condotto negli Stati Uniti. Per inciso: martedì, al Libi – parlando davanti una corte di Manhattan – si è dichiarato “non colpevole” e ha ribadito di non essere coinvolto negli attentati del ‘98.
Questi sono due episodi fortemente connessi tra loro. Il primo (la cattura di al Libi) è di fatto la causa del secondo (il sequestro di Zeidan). Quanto accaduto al premier, ha infatti spiegato il portavoce dei suoi sequestratori citato da al Arabiya, “arriva dopo il comunicato di John Kerry (il segretario di Stato statunitense, ndr), il quale ha affermato che il governo libico era stato messo al corrente dell’operazione” al Libi.
Per capirne qualcosa di più, T-Mag ha contattato Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), che spiega: “Zeidan ha detto di non essere stato informato sull’operazione che ha poi portato all’arresto di al Libi. Mentre il segretario di Stato statunitense, John Kerry, lo ha improvvidamente smentito. Esponendo così il primo ministro libico ad una ritorsione. Il rapimento lampo è quindi una reazione delle miliziani. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che – qualche giorno prima il suo sequestro – Zeidan aveva, parlando alla BBC, indicato nelle milizie armate un problema per lo Stato libico. Chiedendo alle forze internazionali di intervenire”.
“Quanto accaduto e quanto sta accadendo in Libia – sottolinea Varvelli – avviene perché l’autorità centrale non ha ancora conquistato il monopolio della forza, che invece resta nelle mani di molti attori come le milizie. La maggior parte di queste non sono state ancora disarmate, altre invece sono state inserite nello Stato. Rispondono a sé stesse, alla tribù”.
“Nell’attuale Libia – puntualizza il ricercatore dell’Ispi – la legittimità di potere ha due fonti: da una parte abbiamo il governo e il parlamento, prodotti di un processo democratico, dall’altra i miliziani che vantano di aver abbattuto Gheddafi”.
Un processo democratico, che ha avuto il suo culmine con le elezioni a suffragio universale del 7 luglio del 2012, le prime celebrate dopo la caduta del regime e alle quali parteciparono 1.7 milioni di libici sui 2.728.240 (ovvero l’80% degli aventi diritto) che si registrarono per il voto (dati Alta commissione elettorale nazionale libica).
E’ alla guida del Paese dal novembre del 2012, ma che uomo politico è l’attuale premier libico? “Zeidan – risponde Varvelli – è piuttosto screditato dalla parte di quelle formazioni politiche che vedono nell’Islam una soluzione plausibile, anzi: auspicabile. E’ bene sottolineare che durante gli anni del regime di Gheddafi, Zeidan ha vissuto lontano dal Paese nord africano e anche per questo non è percepito come un libico vero e proprio”.
Ma Varvelli ci invita a comprendere una cosa: se la Libia è un Paese instabile, la colpa non è attribuibile a Zeidan e alla sua presunta “debolezza”. E il perché è presto detto: “Il problema è che in Libia non esiste nessuno con la forza necessaria, il giusto carisma e le capacità per poter tenere unito il Paese. In passato, Gheddafi vi era riuscito. Oggi non c’è nessuno in grado di ottenere lo stesso risultato. La Libia è una nazione fortemente divisa, che ancora non si riconosce in un’unica identità. Qualche esempio? La Cirenaica ha chiesto l’indipendenza. Mentre Misurata si autogoverna. La classe dirigente non sembra in grado di trovare una soluzione, mentre il Parlamento negli ultimi mesi si è fortemente polarizzato”.
La Libia resta un Paese altamente instabile, con un sistema giudiziario – denunciava Human Rights Watch nel suo World Report 2013 – “rimasto debole”, incapace di perseguire i criminali affiliati con gli esponenti delle milizie che hanno combattuto Gheddafi. Con uno Stato di diritto “ulteriormente inibito” dalle continue “minacce e aggressioni contro i pubblici ministeri e giudici”. Basti pensare che, secondo Hwr, “delle circa 8.000 persone in stato di detenzione ad ottobre 2012”, la maggior parte di queste “erano state trattenute per più di un anno senza accuse o diritto ad un giusto processo e la difesa di un legale”. Con un’economia rimasta ferma per troppo tempo. Solo nel 2011, anno in cui iniziarono le rivolte che portarono alla caduta di Gheddafi, il Pil libico crollò del 61%. A cominciare dall’ottobre dello stesso anno, la produzione petrolifera libica tornò a crescere, raggiungendo (alla fine del 2012) i livelli pre-guerra, ossia circa 1,6 milioni di barili al giorno. E così, prevede il Fondo monetario internazionale, il pil libico crescerà del 121% nel corso del 2013, tornando ai livelli del 2010.
Quest’ultima è però una dinamica comune a tutti i Paesi, dove la Primavera araba ha preso il sopravvento. Perché le rivolte non portano via con sé solo molte vite, ma paralizzano anche l’economia. Accade così che, secondo le stime dell’Hsbc, le sommosse costeranno ai Paesi coinvolti (Egitto, Tunisia, Libia, Siria, Giordania, Libano e Bahrain) ben 800 miliardi di dollari entro la fine del 2014.
C’è poi l’Italia. Il nostro Paese era, prima del conflitto, il principale partner economico della Libia, al primo posto sia tra i paesi clienti (con una quota pari al 27,2%) che tra i fornitori (con una quota pari al 16,3%).
Il volume di scambi tra Italia e Libia crollò del 70% nel corso del 2011 rispetto al 2010, per poi tornare a crescere nei mesi successivi alla fine dell’intervento armato delle Nazioni Unite (dati Servizio Studi – Dipartimento affari esteri). Quindi nonostante la guida del Paese libico sia in mano ad attori diversi, i rapporti tra Roma e Tripoli sembrano rimanere ottimi. Varvelli conferma: “I rapporti non sono cambiati. C’è però una differenza: ora ci relazioniamo con una controparte altamente instabile. Come italiani, abbiamo due necessità. La prima: contribuire al processo di stabilizzazione in Libia. La seconda è quella energetica. Detto questo, è evidente come solo noi italiani siamo tra i pochi in grado di relazionarci con i libici. Emblematico è l’endorsement del presidente statunitense Obama, che – durante i lavori del G8 di Lough Erne- ha chiesto al premier Letta cosa è necessario fare in Libia”.
Insomma, la classe dirigente libica non sembra in grado di far fronte a quella “molteplicità di sfide”, che anche i servizi segreti italiani annunciavano nella loro Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza del 2012. Nel 2013, si legge infatti nel rapporto, si potrà mettere alla prova “la capacità della nuova classe dirigente di rappresentare il frammentato, composito panorama sociale, accogliendo le istanze provenienti dalle varie realtà regionali e tribali; il perfezionamento del progetto di riconciliazione nazionale, che dovrà includere elementi dell’ex regime (dinamica, quest’ultima, ormai impossibile: il Congresso – su pressione delle milizie – ha infatti approvato il 5 maggio del 2013 la legge sull’isolamento politico, che interdice per 10 anni da qualsiasi carica di governo e da qualsiasi partito chiunque abbia ricoperto un incarico ufficiale dal 9 settembre del ’69, giorno in cui Gheddafi prese il potere, fino al 23 ottobre del 2011 ovvero fino alla fine dell’intervento Nato in Libia, ndr) nonché le minoranze etniche; il disarmo e l’integrazione delle milizie nei nascenti apparati politico-militari”. Sfide che ancora restano tali. Resta quindi lontana quella stabilità che Gheddafi era riuscito a garantire. Nonostante tutto e a qualunque costo.

 

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