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I crimini agroalimentari in Italia

agromafieL’Italia è il paese della buona tavola, del cibo di qualità, di prodotti unici al mondo. Buona parte del merito di questa unicità è rappresentato dal settore agroalimentare, da sempre fiore all’occhiello del Made in Italy che però non riesce a scrollarsi di dosso le vesti di Cenerentola. Oltre alla crisi, a rendere ancora più complicato negli ultimi anni lo sviluppo di questo settore vitale per l’economia del nostro Paese, anche l’appetito delle mafie. Camorra, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta sono state ancora una volta capaci di anticipare i tempi e ormai da anni hanno messo le mani su un business, quello dell’agroalimentare, il cui giro d’affari si attesta attorno ai 14 miliardi di euro l’anno, 7 dei quali provenienti solo dalla produzione agricola. Questi alcuni dei dati emersi da Agromafie. 2° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia Eurispes-Coldiretti, presentato sabato 19 ottobre nell’ambito della XIII edizione del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione a Villa d’Este di Cernobbio.
Nel 1° rapporto Agromafie, Eurispes e Coldiretti avevano denunciato il fenomeno dell’Italian Sounding, la commercializzazione di prodotti non italiani con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani. “L’Italian Sounding – spiega il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara – ha registrato un’ulteriore sofisticata evoluzione: non si investe più solamente sulla creazione all’estero di pseudo-aziende che imitano i nostri prodotti, ma si acquisiscono direttamente antichi e prestigiosi marchi legati alla storia e alla cultura dei nostri territori, li si svuota dei contenuti di conoscenza, tradizione, qualità, sapienza e attraverso di essi si commercializzano produzioni dall’origine incerta, ambigua e spesso pericolosa, così come ambigua è molto spesso la provenienza dei capitali utilizzati per queste acquisizioni. Insomma – conclude Fara – si è passati dall’Italian Sounding all’Italian Laundering, con pezzi interi della nostra economia utilizzati per il lavaggio di denaro sporco”.
Si tratta di due fenomeni che non solo stanno mettendo a rischio e svuotando il marchio del Made in Italy, ma che di fatto ingannano e mettono anche a rischio la salute degli ignari consumatori. Paradossale a questo proposito è il caso dell’olio d’oliva. L’Italia, contrariamente alla sua immagine di esportatrice nel mondo della cultura mediterranea, vanta un saldo negativo nel settore oleario, almeno per quanto riguarda i volumi in quantità: sebbene calcolando le esportazioni nette in valore si ottenga per il 2012 un saldo positivo di 114,2 milioni di euro, dal punto di vista delle quantità tale saldo diventa negativo e pari a -183 mila tonnellate nel 2012. Insomma l’Italia importa, soprattutto dalla Spagna, ma anche da Grecia e Tunisia, grandi quantità di olio tanto da risultarne paradossalmente il primo importatore mondiale. L’Italia è al tempo stesso vittima e colpevole di questa situazione: vittima perché l’Europa non solo non effettua i controlli necessari ma pur di difendere la concorrenza e il libero scambio delle merci sta mettendo seriamente a rischio pezzi di pregio del settore agroalimentare italiano; colpevole perché si è poco incisivi nei confronti delle scelte europee e perché purtroppo sempre più spesso alcuni produttori si stanno adeguando alle logiche della globalizzazione immettendo sul mercato alimenti falsi o di bassa qualità, come appunto avviene nel caso dell’olio.

Le organizzazioni criminali sono impegnate a 360° in questo business miliardario: controllano in molti territori la distribuzione e il trasporto dei prodotti agroalimentari, attraverso le estorsioni e le intimidazioni impongono la vendita di determinate marche e di determinati prodotti agli esercizi commerciali. In alcuni casi, come avvenuto al mercato ortofrutticolo di Fondi, uno dei più importanti del Centro-Sud, addirittura si riuniscono in un vero e proprio “cartello” e impongono i prezzi a frutta e verdura. Approfittando della crisi economica e delle restrizioni al credito operate dalle Banche rilevano direttamente aziende, imprese e attività commerciali in difficoltà. Almeno 5.000 locali di ristorazione in Italia sono gestiti, attraverso prestanome, dalla criminalità che non solo in questo modo produce profitti, ma riesce anche a riciclare denaro sporco. I reati nel ramo agroalimentare che vedono le mafie come attori principali spaziano dall’usura al racket, dai furti di attrezzature agricole all’abigeato, dalle macellazioni clandestine ai danneggiamenti delle colture, dalla contraffazione all’abusivismo edilizio, dall’agropirateria al saccheggio del patrimonio boschivo, dalle truffe ai danni dell’Unione europea fino a veri e propri crimini ambientali come quello del traffico di rifiuti tossici.
L’Italia è il terzo paese nell’Unione europea, dopo Olanda e Belgio, per deficit di suolo agricolo e il quinto su scala mondiale: dagli anni Settanta ad oggi, infatti, la perdita di superficie agricola nel nostro Paese ha interessato una superficie pari a cinque milioni di ettari, un’area equivalente al territorio delle regioni Liguria, Lombardia e Emilia-Romagna. Dal dopoguerra si è assistito ad un vorticoso aumento del consumo di suolo a danno soprattutto di terreni agricoli e aree boscate. È il risultato di uno sfruttamento “criminale” del territorio: si è scelto nel tempo un modello di sviluppo a breve termine, focalizzato su un’economia che ha prodotto inquinamento e ha compromesso, in maniera talvolta irreversibile, l’equilibrio naturale e la capacità di rigenerazione del ciclo ambientale. A causare la contrazione dei suoli agricoli sono stati l’abbandono dei terreni, uno sviluppo industriale “criminale” (vedi i casi di Taranto, Bagnoli, Scarlino o Porto Torres) e la cementificazione, un fenomeno che dagli anni Cinquanta a oggi ha interessato un’area di 1,5 milioni di ettari, equivalente all’intera Regione Calabria. In soli 15 anni i Comuni hanno rilasciato permessi per costruire pari a 3,8 miliardi di metri cubi, oltre 250 milioni di metri cubi l’anno.

Appare evidente dunque che la situazione in cui versano gli agricoltori italiani stretti tra la concorrenza straniera, dai costi non comprimibili e dall’aumento dei margini della distribuzione. Nell’ultimo decennio si è registrato un vero e proprio crollo dei redditi degli agricoltori la cui quota per ogni 100 euro prodotti dalla filiera è scesa da 7,6 a 1,5 euro. Di contro i prezzi per l’ortofrutta moltiplicano in media di tre volte dalla produzione al consumo: i ricarichi variano dal 77% nel caso di una filiera cortissima, del 103% nel caso di un intermediario, del 290% nel caso di due intermediari, fino al 294% per la filiera lunga. E proprio dietro tanti passaggi molto spesso c’è la longa manus delle mafie.
Negli ultimi anni di straordinaria importanza è stato il ruolo delle Forze dell’ordine (Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo Forestale). I Nas dei Carabinieri solo nel 2011 hanno effettuato 38.696 ispezioni accertando ben 22.206 infrazioni (+8%). Le regioni con il più alto numero di reati riguardanti il settore agricolo sono state Lazio e Campania rispettivamente con 2.091 e 2.011 reati. Impegnatissimi anche gli uomini della Guardia di Finanza che nel solo 2012 hanno sequestrato prodotti alimentari per un totale di 10.649.040 chili ed effettuato, fra l’altro, controlli del settore “Frodi comunitarie-Aiuti all’agricoltura”. Friuli Venezia Giulia, Abruzzo e Sicilia sono le regioni che hanno registrato una prevalenza di fenomeni fraudolenti riguardanti l’indebita percezione o richiesta di contributi europei. In aumento anche gli illeciti amministrativi registrati dal Corpo forestale: 105 reati accertati e 154 persone segnalate.
Sono in totale 11.238 i beni immobili confiscati in Italia tra appartamenti, ville, capannoni, terreni, alle associazioni mafiose. In particolare in Sicilia sono stati confiscati 4.892 beni, in Calabria 1.650, in Campania 1.571 e in Puglia 995. A conferma della crescente penetrazione da parte delle organizzazioni mafiose anche nelle regioni del Nord, va sottolineato che i beni confiscati in Lombardia sono stati 963, una cifra di tutto rispetto. Nel solo 2012 sono stati sequestrati e confiscati 1.674 aziende. Il riutilizzo di questi beni non ha più, come accadeva fino a qualche anno fa, un ruolo meramente simbolico o di testimonianza. I beni confiscati costituiscono ormai risorse diffuse sul territorio, utili a fungere da volano per interventi organici e strutturati di sviluppo locale, insomma risorse preziose per creare nuova occupazione e migliorare il benessere sociale ed economico.

(fonte: Eurispes)

 

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