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La guerra di droni degli Stati Uniti

Non solo Datagate: altre questioni impensieriscono la politica estera dell'amministrazione Obama. Intervista a Luciano Bozzo, professore di Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Firenze
di Mirko Spadoni

barack_obamaI due stavano viaggiando a bordo di una Suzuki per le strade della Somalia, ignorando un particolare: i loro spostamenti erano seguiti da un drone, un aereo militare senza pilota. Un pedinamento durato fino a quando dal drone non sono partiti dei missili Hellfire, che hanno distrutto – uccidendoli – il veicolo con il quale si muovevano. Era il 28 ottobre. Un responsabile del Dipartimento della Difesa statunitense, citato dal New York Times, ha poi riferito che una delle due vittime è Ibrahim Ali, specialista di esplosivi per al Shabaab e responsabile delle operazioni Istishhad (“morti eroiche-operazioni suicide”). L’attacco, condotto dalla Joint Special Operations Command del Pentagono, è stato autorizzato in risposta all’assalto del 21 settembre al Westgate Mall, il centro commerciale di Nairobi, costato la vita ad almeno 67 persone. Nessun civile, riferiva poi un alto funzionario militare statunitense alla Nbc, è rimasto ferito dai missili lanciati dai droni.
Portando a termine la propria missione, il drone era quindi riuscito laddove i Navy Seals avevano fallito qualche settimana prima. Era il 7 ottobre, quando nella città di Baraawee, una delle roccaforti di al Shabaab, le forze speciali statunitensi furono impegnate in un raid. Scopo dell’incursione? Catturare Ikrima, un keniota di origini somale di cui si sa molto poco (l’intelligence lo considera la mente di molti attentati – sventati – in Kenya tra il 2010 e il 2013). Ma non tutto andò secondo i piani: il fuoco pesante costrinse i Navy Seals a ritirarsi.
I droni si rivelano quindi estremamente efficaci, ma il loro uso ha sollevato qualche dubbio. Solo la settimana scorsa, Amnesty International ha pubblicato Sarò io il prossimo? Gli attacchi statunitensi coi droni in Pakistan, un rapporto che esamina 45 attacchi conosciuti tra gennaio 2012 e agosto 2013 nel Nord Waziristan, la regione del Pakistan più colpita dai droni. Lo studio “solleva forti interrogativi su violazioni del diritto internazionale che potrebbero costituire esecuzioni extragiudiziali o crimini di guerra”. Molti sono i casi certificati da Amnesty International di civili uccisi, perché scambiati per pericolosi terroristi.
A conclusioni simili a quelle di Amnesty, è arrivata anche Human Rights Watch, che nel suo rapporto Between a Drone and al Qaeda, pubblicato qualche giorno fa, ha analizzato un attacco con droni compiuto nel 2009 e cinque compiuti tra il 2012 e il 2013, tutti in Yemen. Hrw ha riferito che gli attacchi sono costati la vita ad 82 persone, tra queste 57 erano civili.
Per capire qualcosa di più, T-Mag ha contattato Luciano Bozzo, professore di Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Firenze. “Il problema, che è stato sollevato da Amnesty International, nasce – sottolinea il professore – dall’utilizzo dei droni in uno Stato (il Pakistan) che formalmente non è in guerra contro gli Stati Uniti”.
Per giustificare l’uso dei droni in paesi come il Pakistan, Washington fa ricorso al diritto all’autodifesa sancito dal diritto bellico e all’Authorization for the use of military force against terrorists, un provvedimento approvato dal Congresso il 14 settembre del 2001, a pochi giorni dall’attacco alle Torri Gemelle. Questa norma concede al presidente di “usare tutti i mezzi necessari e appropriati” per perseguire i terroristi che hanno “pianificato, autorizzato, commesso o facilitato” gli attacchi del 2001 – e che quindi rappresentano un pericolo per la sicurezza statunitense – senza chiedere l’autorizzazione del Congresso. “L’uso dei droni – puntualizza Bozzo – risulta dal punto di vista americano estremamente funzionale nella lotta contro il terrorismo, anche se le modalità (ricorrere ai droni per eliminare possibili minacce in Stati non formalmente in guerra) sono quantomeno questionabili”.
L’utilizzo di questi armamenti è poi caratterizzato da un elevato grado di segretezza. Difficile anche calcolare il numero esatto degli attacchi. Secondo una stima del The Bureau of Investigative Journalism, solo in Pakistan – dal 2004 al 2013 – gli attacchi sono stati 376 (325 sotto l’attuale amministrazione statunitense). Mentre le vittime sarebbero da un minimo di 2.525 ad un massimo di 3.613. Nel maggio scorso, parlando alla National Defence University, Obama aveva annunciato una maggiore trasparenza nell’utilizzo dei droni. “Promessa che – denuncia Amnesty International – deve ancora diventare realtà”. Per inciso: pur contestando – pubblicamente – l’utilizzo dei droni sul proprio territorio, secondo il Washington Post, alti funzionari di Islamabad avrebbero approvato “segretamente e da anni” i piani della Cia, citando documenti segreti americani e memo diplomatici pakistani, spiegando come l’agenzia statunitense fornisse rapporti dettagliati sul numero degli attacchi e delle vittime.
Ma Washington non è stata l’unica potenza ad aver fatto ricorso ai droni. “Rimanendo nella regione mediorientale – racconta il professore – oltre ad Israele anche la Turchia li ha utilizzati per contrastare l’azione dei curdi del Pkk, che agli occhi di Ankara rappresentano una minaccia concreta. Ottenendo risultati estremamente positivi, dal punto di vista di chi i droni li ha usati”.
Ma quale giudizio possiamo dare ai droni? Bozzo ne è convinto: “Sono senz’altro strumenti molto efficaci, perché consentono di combattere una sorta di guerra politically correct. Sono scarsamente visibili ai media e permettono di raggiungere determinanti obiettivi, senza con questo mettere a rischio la vita dei propri soldati”.
“Ma c’è dell’altro – prosegue il professore -: i droni potrebbero essere utilizzati non necessariamente contro uno Stato, ma all’interno del proprio. Come strumento di controllo del territorio, di repressione e di contrasto nei confronti della criminalità. E così potenze più o meno grandi, ma anche piccolissime, stanno procedendo o hanno già provveduto allo sviluppo della tecnologia in questione, una tecnologia estremamente economica rispetto ad altri armamenti. Tutto questo senza che ci siano delle norme che ne regolamentino l’utilizzo. Ciò potrebbe dare il via a delle conseguenze – conclude Bozzo – sulle quali gli Stati Uniti dovrebbero interrogarsi”.

 

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