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Un suicidio la politica dell’austerity

Nella classifica europea che valuta l'incremento del Pil nel periodo 2000-2011 l'Italia è all'ultimo posto
di Carlo Buttaroni

tasse_2013In Italia la spesa della pubblica amministrazione è di poco superiore alla media europea ma inferiore a quella delle principali economie dell’Unione, con l’unica eccezione della Spagna. Rispetto ai 13 mila euro per abitante dell’Italia, la Svezia ne spende 21 mila, l’Austria 18 mila, la Germania 14 mila. Anche la pressione fiscale è più alta della media dell’Unione. Sopra di noi ci sono Danimarca, Francia, Belgio, Svezia, Austria e Finlandia e, appena al di sotto, Germania e Regno Unito. Analizzando il periodo tra il 2000 e il 2011, si nota come in Italia la dinamica della spesa della pubblica amministrazione sia stata contenuta, vedendo invece crescere in modo rilevante la pressione fiscale. In quanto a incremento, ci superano solo Malta, Cipro, Portogallo ed Estonia. Nella Repubblica Ceca, in Francia e nel Regno Unito la crescita è stata assai più modesta, mentre negli altri Paesi dell’unione si è registrato addirittura un decremento.
La combinazione tra spesa della pubblica amministrazione e pressione fiscale propone uno scenario composto da quattro gruppi di Paesi: quelli dove sia la spesa che la pressione fiscale hanno fatto registrare una crescita rilevante e quelli dove sono diminuite entrambe; quelli dove è aumentata la spesa della PA ma è diminuita la pressione fiscale e, infine, i paesi in cui la dinamica è stata opposta, cioè è aumentato soprattutto il peso del fisco. L’Italia rientra in quest’ultimo gruppo.
Per quanto riguarda il Pil pro capite, con circa 25 mila euro, l’Italia è nella media europea. Davanti ci sono Lussemburgo (68 mila), Paesi Bassi (33 mila), Irlanda, Austria e Svezia (32 mila), Danimarca (31 mila), Germania e Belgio (30 mila), Finlandia (29 mila), Regno Unito e Francia (27 mila). Siamo, invece, all’ultimo posto per quanto riguarda l’incremento registrato negli undici anni considerati: appena il 13%.
I dati, letti nel loro complesso, suggeriscono qualcosa che è più di un semplice indizio: tagliare la spesa pubblica e aumentare la pressione fiscale produce effetti negativi sulla crescita. La prova la fornisce lo studio Moltiplicatori fiscali ed errori nelle previsioni di crescita, firmato da due economisti del Fondo Monetario internazionale, Daniel Leigh e Olivier Blanchard, che hanno messo nero su bianco quello che da tempo sosteniamo: la politica del rigore è stata un suicidio. Analizzando i casi di Spagna, Portogallo e Grecia, i due studiosi hanno dimostrato che la premessa alla base delle politiche “lacrime e sangue” è completamente sbagliata. E dalle conseguenze devastanti. Il principio attivo della cura-austerity messo a punto nei laboratori di Bruxelles, infatti, si basava sulla convinzione che per ogni euro tagliato ci sarebbe stata una contrazione dell’economia pari a 0,50 euro. I dati hanno dimostrato, invece, che la contrazione reale è stata di 1 euro e mezzo. Cioè, tre volte tanto.
In un altro rapporto interno del Fondo monetario internazionale si legge che alcune delle politiche imposte hanno presentato rischi di “autodistruzione” per l’economia locale. Il tardivo mea culpa del FMI arriva dopo la scoperta di grossolani errori nel modello teorico dell’austerity elaborato da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Secondo questi studiosi c’è una correlazione tra debito pubblico/pil elevato, cioè superiore al 90%, e bassa crescita economica. Depurando l’analisi da errori grossolani si è scoperto, invece, che il tasso di crescita medio dei Paesi ad alto debito non è –0,1% bensì +2,2%.
Un articolo del blog The Next New Deal della Roosevelt Foundation mette in evidenza come, dato un certo rapporto Debito/PIL, è molto più probabile che la bassa crescita sia precedente tale rapporto e non successiva, come ci si aspetterebbe se fosse il debito a causare il rallentamento della crescita. L’aumento del debito pubblico determina, negli anni successivi al “picco”, tassi di crescita leggermente maggiori che nel periodo precedente. E’ la bassa crescita, quindi, la causa di debiti pubblici elevati e non il contrario. Gli effetti negativi dell’austerity sono stati quelli che ogni economista di buonsenso si sarebbe aspettato: crescita pressoché nulla, un enorme declino in alcuni Paesi, innalzamento del debito e modesta riduzione dei disavanzi pubblici, nonostante i forti tagli della spesa. Il tutto con danni collaterali devastanti: disoccupazione, riduzione dei consumi e crescita delle disuguaglianze.
Sotto l’insegna di teorie sbagliate e motivazioni indimostrabili sono state tagliate o rinviate le pensioni di lavoratori ormai avanti negli anni, effettuati tagli indiscriminati alla spesa pubblica, annullate le leve di sostegno alle imprese e alle famiglie e compressi i diritti dei lavoratori. Senza contare quanta disoccupazione è stata “causata” da teorie fondate su errori aritmetici e utilizzo scorretto dei fogli di calcolo. Per non rischiare di diventare poveri nel futuro si è così diventati poveri nel presente.
Anche se i livelli di interdipendenza economico-finanziaria che il mercato unico e l’euro hanno attivato non lasciano dubbi sul fatto che l’Unione debba proseguire, la rete di interessi e convergenze ha necessità di politiche diverse. La prima esigenza è quella di istituzionalizzare i processi di solidarietà reciproca tra i paesi membri. Un processo che chiama in causa soprattutto la Germania, che per vent’anni ha cercato di impedire la trasformazione dell’Unione monetaria in una vera transfer union, imponendo di fatto la clausola di no-bail out. Regola secondo la quale gli stati appartenenti alla Comunità Europea non possono farsi garanti del debito di un paese appartenente alla Comunità stessa, con forti limitazioni alla possibilità di intervento delle banche centrali e della Bce. L’ottusa rigidità e la prevalenza dei singoli interessi, oggi, rendono possibili solo acrobazie da parte dei governi ogni qualvolta occorre attivare un’azione a tutela dell’unione e della moneta. È giunto il momento della svolta, per dare concretezza all’edificio europeo, sviluppando a una vera e propria unità politica con l’obiettivo dell’interesse comune. Solo se i governi faranno propria questa consapevolezza, si potrà invertire il processo di degenerazione economica e dare slancio e reale unità all’Europa.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 4 novembre. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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