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Dal KGB al Cremlino: vita di Vladimir Putin

Ritratto dell'uomo che Forbes ha definito il "più potente del pianeta"
di Mirko Spadoni

vladimir_putinIn cuor suo, forse già si sentiva tale. Per uno come Vladimir Putin, la decisione del settimanale Forbes di eleggerlo “l’uomo più potente del mondo” potrebbe essere stata – semmai – solo un ulteriore riconoscimento. Suo nonno fu il cuoco di fiducia di Stalin e Lenin. Suo padre fu invece arruolato come sabotatore dal NKVD e durante la seconda guerra mondiale combatté dietro le linee tedesche. Eppure nonostante questo, non è un nostalgico dell’Urss (“Chiunque non si rammarichi per il crollo dell’Unione sovietica non ha cuore, ma chiunque voglia ricostruirla non ha cervello”, ha ripetuto spesso negli ultimi anni), Vladimir Putin è piuttosto un gosudarstvennik: “un uomo dello Stato”. E come tale il suo unico scopo è quello di tutelarne gli interessi. I potenti oligarchi che – morto il comunismo – si arricchirono a spese della Russia, lo hanno imparato presto. Una volta al Cremlino, ha arginato il loro potere. Ha preteso che abbandonassero ogni velleità politica e così chi si è adeguato ha continuato ad arricchirsi, tutti gli altri sono caduti in disgrazia. Mikhail Khodorkosvsky, l’ex patron della Yukos arrestato con l’accusa di appropriazione indebita di petrolio e riciclaggio di denaro, è l’esempio più famoso. Khodorkosvsky è ora detenuto in Siberia e si dichiara vittima di una persecuzione politica. Amnesty International concorda con lui e lo definisce “prigioniero di coscienza”. Ma c’è chi non la pensa allo stesso modo: nel 2011, la Corte europea dei diritti umani non gli ha riconosciuto lo status di “perseguitato politico”. “L’accusa che l’azione giudiziaria sia motivata politicamente deve essere – spiegavano i giudici – supportata da prove incontestabili, che non sono invece state prodotte dal ricorrente”. Altri oligarchi hanno invece preferito auto esiliarsi, seguendo l’esempio di Boris Berezovsky, trovato morto il 23 marzo nella sua abitazione nei pressi di Londra. Ma tra gli oppositori di Putin, ci sono anche l’ex campione di scacchi Garry Kasparov, che nei giorni scorsi ha chiesto la cittadinanza lettone per “poter fare politica in Russia e altrove senza alcuna restrizione”, e il blogger Alexei Navalny, la cui condanna per appropriazione indebita è stata confermata dalla Corte d’appello di Kirov solo qualche settimana fa. Tuttavia la pena detentiva di cinque anni a cui era stato condannato è stata sospesa con la condizionale. Una decisione, questa, che non gli permetterà comunque di candidarsi alle elezioni: in Russia anche una sentenza sospesa comporta un bando a vita dalle cariche politiche. Un’opposizione composita e numerosa, che però non riesce a mettere in discussione la leadership di Putin, per tre volte presidente della Russia e con un passato come colonello nel KGB. Il retaggio nei servizi segreti riaffiora costantemente: perché Putin ascolta cosa ha da dire il suo interlocutore, senza tradire alcuna emozione.
Nato nel 1952, ha vissuto l’infanzia in una kommunalka (un appartamento in comune dove manca l’acqua calda e la vasca da bagno) di Leningrado. Un’infanzia trascorsa più a giocare nei cortili che a studiare. Passata a leggere i libri gialli più che quelli di scuola. Ed è proprio nel corso delle sue letture che decise cosa avrebbe voluto fare da grande: “Ancora prima di prendere il diploma volevo andare a lavorare nei servizi segreti: era il mio sogno”, ha raccontato in un libro intervista intitolato Prima Persona. Studiò legge all’Università di Stalingrado, per essere poi reclutato dal KGB mentre frequentava il quarto anno. Dopo aver realizzato il suo “sogno”, a chi gli chiedeva che lavoro facesse rispondeva sibilino: “Sono un esperto in rapporti umani”. Fu inviato nella Ddr, “un paese – raccontò qualche anno più tardi – che era come l’Unione sovietica di trent’anni prima: totalitario”. Nel corso della sua permanenza nella Germania Orientale non ricoprì incarichi di prestigio, anzi. Il giovane Putin si occupava di “spionaggio politico”: reclutava fonti, otteneva informazioni, le analizzava e poi le trasmetteva a chi di dovere nella capitale sovietica. Un’esperienza che durò fino al 1989. Nei giorni successivi al crollo del muro di Berlino, lavorò intensamente assieme ai suoi colleghi con un solo scopo: “Distruggere ogni cosa, interrompere le linee di comunicazione e trasferire a Mosca solo il materiale più importante”. “Avevamo talmente tanta roba da mettere nel fuoco che – racconta ancora Putin – a un certo punto la stufa scoppiò”. Era il 1989, l’Urss avrebbe dichiarato la sua resa solo qualche anno più in là. Eppure Putin ebbe subito l’impressione che ormai fosse tutto finito. Se ne convinse il 6 dicembre, quando una folla si radunò davanti alla palazzina di Angelikastrasse 4, dove aveva sede – in incognito – il KGB. Gli agenti sovietici contattarono il vicino distaccamento militare in cerca d’aiuto, ma la risposta fu negativa: “Non possiamo fare nulla senza l’autorizzazione di Mosca, e Mosca tace”. Stava terminando un’epoca. “Ad essere onesti – raccontò nel novembre del 2009 nel corso di un’intervista alla Ntv – devo dire che mi dispiaceva che l’Urss stesse perdendo le sue posizioni in Europa”. Un dispiacere inevitabile, per lui che – per sua stessa ammissione – si considerava “un prodotto perfetto e assolutamente riuscito dell’educazione patriottica sovietica”.
Tornato in Patria, intraprese una strada che un decennio dopo lo portò alla guida del Paese. Nel ’90, divenne consigliere del sindaco di San Pietroburgo, Anatolij Sobčak. Nel ’96, assunse la carica di capo delegato del Dipartimento per la Gestione della Proprietà Presidenziale. Nel ’98, venne messo a capo del FSB (una delle agenzie che succedettero al KGB). Putin tornava così alle origini, ma il suo nuovo incarico durò poco: un anno dopo, venne nominato premier. Il 31 dicembre del ‘99, inaspettatamente, Eltsin rassegnò le proprie dimissioni e – come previsto dalla Costituzione russa – Putin divenne presidente ad interim della Federazione.
Nel corso dei primi due mandati (2000-2004 e 2004-2008), Putin ha rafforzato la Russia sul piano interno. Un passo obbligato dopo il disastroso decennio Eltsin in cui il Paese era finito al collasso: due colpi di Stato (1991 e 1993), due guerre in Cecenia (1994-1996 e 1999-2000) e il default economico del ‘98. Nel maggio del 2008, impossibilitato ad accedere un terzo mandato per via della Costituzione, Dmitrij Medvedev (divenuto presidente) lo nominò primo ministro. Nuovamente eletto presidente nel maggio del 2012, “Putin – secondo quanto sostiene Human Rights Watch nel suo ultimo report – ha scatenato una repressione senza precedenti contro l’attivismo civico”. Eppure la maggioranza dei russi (il 65%, secondo recenti sondaggi) sostiene ancora l’ex agente del KGB. In fin dei conti, le condizioni di vita sono migliorate. L’economia è in costante crescita (secondo il FMI, nel 2013 il Pil russo sarà superiore di circa 50 miliardi di dollari a quello italiano: 2.068 miliardi contro 2.117. Permettendo così a Mosca di diventare l’ottava economia mondiale). Quindi poco importa se la corruzione dilaga (per Trasparency International, la Russia occupa la 133esima posizione sulle 176 disponibili, in una classifica che va dal Paese meno a quello più corrotto), danneggiando l’economia: il giro d’affari della corruzione – secondo il governo russo – ammonta 300 miliardi di dollari l’anno. Perché la Russia è tornata ad essere una potenza mondiale, influenzando o determinando scelte politiche ed economiche altrui. Un esempio? La crisi siriana, nella quale Putin si è speso molto in nome degli interessi di Mosca (a Tartus vi è l’unica base navale russa fuori dai paesi della Csi, mentre a Latakia vi è un centro di ascolto a disposizione dell’intelligence del Cremlino), in virtù di scelte strategiche (parte dell’opposizione siriana – quella jihadista salafita – è la stessa che combatte l’esercito russo in Cecenia) e forse anche in onore di una vecchia amicizia (il padre di Bashar, Hafiz, era un fedele alleato dell’Urss). Una scelta di campo mai messa in discussione, neanche dopo le pressioni saudite: secondo il quotidiano libanese As Safir, il principe saudita e capo dell’intelligence di Riad, Bandar bin Sultan, avrebbe infatti chiesto al Cremlino di non proteggere più Assad, in cambio di un contratto per 15 miliardi di dollari in acquisto di armi russe e paventando il rischio del terrorismo salafita ai giochi olimpici invernali di Sochi. “I gruppi ceceni che minacciano la sicurezza dei giochi sono – avrebbe detto Bandar – controllati da noi”. E così, quando tutto lasciava presagire un intervento armato americano, Mosca si è attivata per scongiurarlo. Lo ha fatto per vie diplomatiche, fino a trovare una soluzione soddisfacente per i governi coinvolti: affidare all’Opac (l’Organizzazione per la non proliferazione delle armi chimiche) il compito di distruggere l’arsenale siriano, stoccato in 23 siti e composto da circa 1.000 tonnellate, il 75% delle quali – scriveva Il Foglio qualche giorno fa, citando l’intelligence russa e statunitense – è costituito da agenti tossici immagazzinati sotto forma di due prodotti chimici distinti, da mescolare solo al momento dell’uso.
Ma prima che le parti trovassero un accordo, Putin si è preso anche la libertà di criticare pubblicamente il presidente americano, Barack Obama, per il discorso alla nazione del 10 settembre. “Non sono d’accordo – sottolineava in una lettera al New York Times – su ciò che ha detto su una peculiarità degli statunitensi, dicendo che la politica degli Stati Uniti è ‘ciò che rende l’America diversa, è ciò che ci rende eccezionali’”. “Ci sono grandi paesi e piccoli paesi, ricchi e poveri, quelli con lunghe tradizioni democratiche e di quelli ancora trovare la loro strada verso la democrazia. Siamo tutti diversi, ma quando chiediamo le benedizioni del Signore, non dobbiamo dimenticare – concludeva Putin – che Dio ci ha creati uguali”.
Putin è così riuscito nel suo intento: tutelare gli interessi di Mosca. Come sempre.

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