Lavoro: le questioni ancora irrisolte
Disoccupazione al 12,5%, quella giovanile al 40,4%. Nei primi nove mesi del 2013, non a caso, sono state presentate 1.431.627 domande di disoccupazione, con un aumento del 27,7% rispetto alle 1.121.277 domande recepite nello stesso periodo del 2012. Le stime dell’Ocse e della Commissione europea fanno presagire il peggio, con la quota dei senza lavoro destinata ad aumentare. Per non parlare delle persone, circa tre milioni secondo i dati Istat, scoraggiate al punto da non cercare più un impiego. Per farla breve, i presupposti che accompagnarono la stesura della riforma del mercato del lavoro del governo Monti (più flessibile e più inclusivo, almeno nelle intenzioni iniziali) sembrano ad oggi del tutto, o quasi, disattesi. La situazione – statistiche alla mano – è persino peggiorata alla stregua dell’intero ciclo economico. Se è presto per commentare i correttivi (ancora troppo timidi, a detta di molti) promossi dall’attuale esecutivo, al contrario sono maturi i tempi per un giudizio di merito sulla riforma Fornero. “C’è da dire subito che la riforma è maturata in un periodo di profonda recessione, dunque è opportuno fare la tara con il contesto negativo”, tiene però a precisare Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano. “Da un lato la riforma delle pensioni – spiega il professore a T-Mag – ha fatto da tappo in uscita per i lavoratori più anziani tanto che il turn over si è drasticamente ridotto, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. Non è solo una questione di cambio generazionale, ma anche di costi e produttività. Innalzando l’età media dei lavoratori il costo complessivo della manodopera è infatti più alto e meno diminuisce la produttività per ora lavorata. La revisione del sistema previdenziale ha senz’altro tamponato l’emergenza delle casse dell’Inps, ma ha anche ampliato il divario tra lavoratori ‘anziani’ e lavoratori ‘giovani’. La riforma del mercato del lavoro – prosegue Del Conte – ha tentato di incrementare una maggiore flessibilità in uscita rimodulando l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e, al contempo, di irrigidire l’ingresso al fine di evitare un utilizzo eccessivo dei contratti atipici a beneficio di un’unica tipologia contrattuale, quella a tempo indeterminato. Purtroppo l’intervento sui licenziamenti ha prodotto un ulteriore aumento dell’incertezza. Il nuovo Articolo 18 pone una serie di questioni interpretative ancora irrisolte, sia sotto il profilo processuale che sotto quello sostanziale. Il risultato è stato l’aumento delle fasi del giudizio e la scarsa prevedibilità sulla applicazione da parte del giudice del rimedio economico in luogo della reintegrazione”.
“Altra questione spinosa – osserva poi il professore – sono gli ammortizzatori sociali, di cui oggi da più parti si invoca nuovamente la riforma. L’Aspi (l’assicurazione sociale per l’impiego, ndr) è una coperta corta e manca ancora un ammortizzatore sociale per la disoccupazione che sia davvero universale e che segua la persona indipendentemente dal suo passato lavorativo.
Sul fronte dell’ingresso nel mondo del lavoro, infine, “la riforma non ha avuto un impatto positivo. Limitare le collaborazioni è uno scoglio per le imprese che o rinunciano a fare nuovi contratti o, peggio, ricorrono a lavoratori in nero. Disincentivare le diverse tipologie contrattuali crea minori opportunità di lavoro regolare, sebbene non standard. Ma oggi il dramma è la disoccupazione e il lavoro nero e i dati sono lì a testimoniarlo”.
In Spagna e in Grecia, che pure presentano tassi di disoccupazione altissimi, un lieve miglioramento nel periodo estivo è dipeso dall’incremento dei lavori stagionali. In Italia, facciamo notare a Del Conte, l’incidenza è stata minima per non dire nulla. “Vale per i lavori stagionali il discorso fatto prima – taglia corto il professore –. L’Italia è un Paese a vocazione turistica e ostacolare le collaborazioni non subordinate, magari con la possibilità di cumulare due fonti di reddito, è un grosso errore. Tutto ciò ci spinge nell’area grigia dell’economia. Non possiamo credere che esista il mito del contratto unico. È possibile, forse, nelle economie più omogenee. Ma non è il nostro caso”.
Una risposta positiva, tuttavia, può giungere da quei settori ritenuti strategici, quali la green economy e l’Ict: il 33,9% delle imprese nate tra inizio anno e fine settembre sono guidate da under 35. “La microimprenditorialità è un segmento storico del tessuto produttivo italiano. Spesso sono però attività individuali da cui deriva poco valore aggiunto. Per rendere il modello vincente deve essere accompagnata la crescita dimensionale delle imprese e delle start up innovative. Una delle principali difficoltà in questo senso è l’accesso al credito. Sebbene esistano esperienze territoriali positive, le imprese più piccole incontrano numerosi ostacoli nell’ottenimento di finanziamenti. Con maggiore fiato finanziario si potrebbero creare imprese in grado di crescere, ma per rendere tutto ciò una costante – conclude Del Conte – è necessaria un’azione di sistema che coinvolga tutte le istituzioni, su tutti i territori”.
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