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Il cuneo fiscale non basta. L’esempio dell’Austria

di Fabio Germani

austriaGli industriali, di recente, hanno spesso indicato il taglio del cuneo fiscale quale misura necessaria per creare nuova occupazione in Italia. Il governo sta tentando di accontentare le richieste del mondo imprenditoriale, ma i dieci miliardi di riduzione previsti – compensati peraltro dall’innalzamento, tra le altre cose, della tassazione sulle rendite finanziarie – è stato intanto già definito un livello “minimo”.
“Il valore medio del cuneo fiscale e contributivo per i lavoratori dipendenti è pari al 49,1% del costo del lavoro”, aveva osservato lo scorso mese in un’audizione al Senato il presidente dell’Istat, Antonio Golini. Ed è così, in effetti, a leggere gli ultimi dati Ocse. In Italia – percentuale un po’ al ribasso – il 47,8% di uno stipendio è destinato a imposte e contributi. Solo che in Italia non va neppure troppo male. Nel corso del 2013 il cuneo fiscale sugli stipendi dei paesi dell’area Ocse è cresciuto dello 0,2% al 35,9%. Prima dell’Italia, che è sesta in classifica, si collocano Belgio (55,8%), Germania (49,3%), Austria (49,1%), Ungheria (49%) e Francia (48,9%). Sul podio, insomma, si piazzano tre paesi con il tasso di disoccupazione tra i più bassi in Europa, rispettivamente all’8,5%, al 5,1% e al 4,8% (Eurostat). Il cuneo fiscale è tutto, quindi? Probabilmente no, come insegna l’esperienza austriaca. Che presenta un mercato del lavoro dinamico e altamente qualificato.

Analizzare un modello
Sia chiaro fin da ora: analizzare un modello non significa per forza di cose voler riproporre quello stesso modello in casa propria. Ogni Paese ha le sue peculiarità, per cui un sistema può funzionare oppure no. Farlo, però, può allargare il campo visivo, esulando in questo modo dagli slogan o dai refrain del momento.
Oltre a quello generale, l’Austria può vantare un tasso di disoccupazione giovanile relativamente basso. I ragazzi al di sotto dei 25 anni in cerca di lavoro, ma che non lo trovano, sono circa il 9,9%. Le stime per quest’anno prevedono da un lato una leggera crescita economica per cui è presumibile una maggiore domanda (soprattutto nelle attività scientifiche e tecniche, sanitarie e di assistenza sociale) e al contempo un lieve aumento della disoccupazione – parliamo ad ogni modo di livelli moderati – tra quanti hanno concluso un periodo di apprendistato.

Il mercato del lavoro in Austria
In Austria la priorità è il ciclo produttivo, ancor prima che il lavoratore in quanto tale. Quest’ultimo, anzi, può essere licenziato con estrema facilità dal datore di lavoro, anche senza giusta causa. Ma una volta licenziato, con l’obbligo di preavviso più o meno ampio secondo la sua anzianità, può accedere a un efficiente sussidio di disoccupazione e ad un periodo di formazione che gli permetta di rimettersi subito in carreggiata (le stesse agenzie di collocamento, o meglio, degli istituti similari, provvedono a proporre lavoro alle persone che hanno perso il posto e beneficiarie dell’indennità). Un sistema simile funziona soprattutto in un Paese che investe in ricerca e innovazione (altro suggerimento all’Italia). Per favorire forme di sviluppo innovative nelle imprese vengono infatti concessi sgravi fiscali fino al 10%.
Un moderno sistema di sicurezza sociale e accordi contrattuali flessibili erano prerogative che rientravano già nel 2007, prima dunque dello scoppio della crisi, tra le strategie comunitarie per incentivare l’occupazione. L’idea di partenza è che i sistemi protettivi, per quanto assicurino un impatto positivo sulla perdita di lavoro (circostanza che con la successiva fase di bassa congiuntura economica non corrisponde più alla realtà dei fatti), non incoraggiano ingressi nel mercato del lavoro alle categorie ritenute più “deboli”, giovani e donne in primis. Già allora si guardava ai modelli austriaco, danese, olandese, spagnolo e irlandese. A spazzare via quelli spagnolo e irlandese ci ha pensato la crisi, gli altri hanno tenuto botta grazie ad una struttura economica più solida. Ma pensare all’Austria, con il suo tasso di disoccupazione al 4,8%, come ad un meccanismo perfetto è fuorviante. Lavori sottopagati, contratti a termine e differenze salariali di genere cominciano ad essere in molti casi all’ordine del giorno anche da quelle parti.

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