Riscoprirsi imprenditori a 50 anni
Anche gli over 50, come le donne e i giovani, ricorrono all’autoimprenditorialità per superare la crisi occupazionale. Talvolta si rivela, oltre che un’opportunità, una necessità. Perché come abbiamo osservato la scorsa settimana i disoccupati sopra i 50 anni hanno maggiori difficoltà a ricollocarsi nel mercato del lavoro e negli ultimi sei anni la platea è cresciuta del 156%.
Reinventarsi con un’attività in proprio è dunque una strada percorribile, pur con tutti gli ostacoli che sono sempre da contemplare. Ad ogni modo i dati, che l’Adapt evidenzia nel consueto bollettino, parlano chiaro: “Nel 2013, gli italiani over 50 anni che, a seguito della perdita del proprio lavoro a
causa della crisi economica, hanno deciso di avviare un’attività d’impresa in proprio, sono stati più di 13 mila, secondo quanto emerso da un’elaborazione dell’Ufficio Studi della Camera di commercio di Monza e Brianza su dati del Registro Imprese”.
Da settembre 2008 ad oggi, si sottoliena ancora, tra le ditte individuali se ne contano 120 mila di questa tipologia, soprattutto da parte di uomini (57,1%). A livello geografico è Roma la prima città con 846 nuovi imprenditori over 50. A seguire Milano (638) e Napoli (574). Anche in Sardegna,
stavolta i dati sono di Confartigianato Sardegna, a Cagliari risultano avviate 461 aziende over 50, 341 a Sassari (108 da neoimprenditori over 50), 183 a Nuoro (59 da ultracinquantenni) e 96 a Oristano (sono 34 quelli alla prima esperienza).
L’autoimprenditorialità offre una grossa possibilità: le esperienze precedenti e i titoli di studio contano, certo, ma sono le passioni soprattutto le passioni a veicolare la scelta sul tipo di attività da avviare. E allora, a livello nazionale, un’impresa su quattro si sviluppa nel commercio o nell’autoriparazione (28,6%), nel settore dell’agricoltura, della pesca (26,6%), delle costruzioni (8,9%), della manifattura (7,7%), dell’alloggio e della ristorazione (6,9%).
Working poor
Chi decide di mettersi in proprio può essere spinto da diverse motivazioni. Non da ultima, se non proprio la perdita del posto di lavoro, la condizione misera in cui versano tanti lavoratori. Vengono definiti working poor, ovvero coloro con un basso livello di reddito. Un recente studio del Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro (Cnel) li ha quantificati in due milioni solo tra i dipendenti, 756 mila tra gli autonomi. A livello sociale la ripartizione comprende in particolare giovani, donne e stranieri, generalizzando tutte quelle categorie vittime di cavilli e procedure il cui impiego risulta inevitabilmente “precario”.
La soglia di povertà si basa sulla remunerazione oraria (dati Istat ed Eurostat) ed è stata individuata per i dipendenti a 9,5 euro l’ora e per gli autonomi a 4,8 euro l’ora.
C’è però da osservare che in Italia la quota di working poor tra i lavoratori dipendenti è più bassa rispetto alla media europea. Nel 2010, ad esempio – tenendo conto che “tanto maggiore è il salario mediano e la dispersione dei salari, tanto più elevata è la quota di working poor” – si attestava al 12,4% dei dipendenti quando la media Ue era al 17% e quella dell’eurozona al 14,8%. Resta comunque il fatto che la crisi economica ha condizionato, e non poco, le dinamiche del mercato del lavoro. E a farne le spese sono i soliti noti.
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