Un’integrazione difficile
Stando all’ultimo rapporto dell’Ocse, Italia e Spagna sono i paesi, membri dell’Organizzazione, dove si registra la più alta crescita annuale della popolazione immigrata – regolarmente – dal 2000 a oggi. Sono stati circa 4,5 milioni gli stranieri giunti nel nostro Paese, una fetta che rappresenta l’11% della popolazione in età lavorativa. L’altro dato al quale l’Organizzazione parigina ha dato ovvia rilevanza è quello relativo al tasso di occupazione dei cittadini immigrati: l’Italia è l’unico Paese dove risulta più alto il tasso degli occupati stranieri rispetto a quello dei lavoratori nativi, soprattutto nel settore edile per gli uomini e in quello dei servizi alla persona o domestici per le donne. Questo perché, e da qui la strigliata dell’Ocse, i lavoratori immigrati sono sottopagati, costretti a lavori non qualificati, il più delle volte sottoposti a licenziamenti selettivi e, molte volte, senza garanzie contrattuali. Una serie di fattori che non fanno che aumentare il sommerso e lo sfruttamento.
Dal Rapporto emerge che i più colpiti dalla disoccupazione sono quei potenziali lavoratori considerati altamente qualificati. Nel 2012 il tasso di disoccupazione si attestava al 12,6% per la componente maschile e al 15,9% per quella femminile.
L’allarme vero e proprio riguarda però la componente dei giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni. Un giovane immigrato su tre rientra nella categoria dei neet (non studia e non lavora); mentre circa il 50% dei 15-34 enni, arrivati in Italia tra i 6 ed i 15 anni ha un livello di istruzione pari alla scuola secondaria di primo grado.
Si tratta, a detta dell’Ocse, delle cause derivanti da una scarsa politica dell’integrazione: “Alcuni aspetti delle infrastrutture per l’integrazione – si legge nel Rapporto – sono meno sviluppati che nella maggior parte dei Paesi con una lunga esperienza di immigrazione alle spalle. Il quadro antidiscriminazione, ad esempio, o le misure per la formazione linguistica risentono della dimensione fortemente regionale dell’immigrazione e dell’integrazione nel mercato del lavoro, nonché della mancanza di coordinamento a livello nazionale e del moltiplicarsi di attori a livelli regionali e locali. Si tratta spesso di progetti locali, di piccole dimensioni e di breve durata: non vi sono programmi nazionali che prevedano alcun tipo di formazione linguistica orientata al mondo del lavoro”.