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Cosa fare con il clima che cambia

di Fabio Germani

co2_climate_changeI motivi per non prendere sottogamba i problemi causati dai cambiamenti climatici sono diversi. In tanti lo ricordano a scadenza regolare, un giorno sì e l’altro pure. Il fatto è che attorno al tema il mondo si divide in due categorie: i catastrofisti da un lato e i più frivoli dall’altro quando, come per ogni cosa, basterebbe del sano buon senso. Domenica 21 settembre sono scese migliaia di persone in strada a New York per la People’s Climate March (ma iniziative analoghe si sono tenute in oltre tremila città). L’evento è stato organizzato da Bill McKibben, fondatore di 350.org, in vista del Climate Summit 2014 promosso dall’Onu che si terrà in queste ore proprio a New York. Tanto per dirne una, la Grande Mela è il fulcro del contrasto ai cambiamenti climatici. Il sindaco Bill de Blasio, infatti, sta lavorando per ridurre le emissioni di gas serra fino all’80% entro il 2050. Ma quanto se ne sa, sul serio, in materia? Questo è l’interrogativo che dovremmo porci, testimonial e ambasciatori Onu à la Leonardo Di Caprio a parte. Sulle pagine del Wall Street Journal l’esperto Steven E. Koonin ha sostenuto che in verità la comunità scientifica (e a maggior ragione cittadini e governi) di cambiamenti climatici ne sa poco. Anche perché il fenomeno di per sé sempre è avvenuto e sempre accompagnerà la nostra esistenza. L’unico quesito che dovrebbe interessare i governi, visto che la scienza nutre dei dubbi sul reale impatto immediato dell’uomo sul clima, è come i cambiamenti volgeranno nel prossimo secolo a causa dell’influenza dell’uomo e degli eventi naturali, così da condizionare il processo decisionale sull’utilizzo delle fonti energetiche e delle infrastrutture. E non è che in questo senso i governi abbiano tutta questa fretta. Il summit di New York servirà più che altro a dettare le linee guida che dovranno tradursi in impegni concreti nel 2015, quando è in programma la Conferenza mondiale a Parigi.
Ora, ovviamente, abbassare la guardia sarebbe sciocco. Perché per quanto se se ne sappia poco, nel 2013 l’Omm (l’Organizzazione meteorologica mondiale) ha osservato, in linea con il decennio 2001-2010, temperature maggiori di 0,48 gradi centigradi rispetto al periodo 1961-1990. Secondo l’Organizzazione si è verificato, dal 1998 in poi, un innalzamento non indifferente, tanto che gli anni recenti più freddi corrispondono ai più caldi tra quelli misurati prima del 1998. Un andamento che non potrà che “peggiorare” a causa soprattutto dell’aumento, anno dopo anno, della concentrazione di anidride carbonica e gas serra nell’aria, il cui record era stato stabilito già nel 2012. E non è tutto: stando alle stime del Rapporto Climate Change 2013 entro il 2100 la temperatura media della Terra dovrebbe aumentare da 0,3 a 4,8 gradi centigradi.
A suo modo il tema sta comunque mutando il paradigma culturale ed economico. Non è un segreto che tante aziende si stiano specializzando nel settore delle energie rinnovabili e la green economy in generale è un segmento che negli ultimi anni ha conosciuto ampi margini di sviluppo. Persino i Rockfeller che un tempo costruirono il loro impero sul petrolio stanno pensando di investire nell’energia pulita. Subentrano nuovi interessi e nuove opportunità di business. Che in certi casi vuol dire anche modificare le proprie abitudini. La misura la dà la Coldiretti: un chilo di ciliegie, ad esempio, dal Cile per giungere sulle tavole italiane deve percorrere quasi 12 mila chilometri con un consumo di 6,9 chili di petrolio e l’emissione di 21,6 chili di anidride carbonica. Con poco si può contribuire a migliorare (un minimo) la situazione: scegliere prodotti locali e di stagione, ridurre al minimo gli imballaggi, riciclare le buste che si usano per la spesa, ottimizzare il consumo di energia nella conservazione e nella preparazione dei cibi, evitare gli sprechi. Questo nel nostro piccolo, intanto l’amministrazione Usa sta riflettendo sull’eventualità di mettere in conto – non a caso c’è già una squadra al lavoro – una politica di adattamento ai cambiamenti climatici. Perché il punto non è quantificarne la portata, ma non farsi trovare impreparati nel prossimo futuro scongiurando (anche) ingenti ripercussioni economiche.

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