La crisi aumenta le disuguaglianze
Alla vigilia dell’annuale Forum economico di Davos (al via mercoledì 21 gennaio) l’Oxfam ha offerto, in un rapporto che verrà presentato proprio per l’occasione, qualche dato su cui riflettere: nel 2016 l’1% della popolazione mondiale avrà in possesso più del restante 99%. Contrastare la diffusione della povertà e aiutare i cittadini meno abbienti rappresenta quindi una sfida permanente per tutti i Paesi.
La crisi economica non ha rappresentato un ostacolo. Dal 2009 ad oggi, l’1% della popolazione ha visto la propria quota di ricchezza mondiale crescere dal 44% al 48% dello scorso anno e che nel 2016, per l’appunto, dovrebbe raggiungere il 50. Per il Credit Suisse questo traguardo è stato superato già lo scorso ottobre.
Chi detiene il rimanente 52% della ricchezza mondiale? La maggior parte (il 46%) è in mano al 20% della popolazione un po’ meno ricca rispetto alla prima ma che, comunque, non ha problemi economici. L’80% del resto del mondo si divide il 5,5%, con un reddito pro-capite di 3.851 dollari: 700 volte meno della media posseduta dal ricchissimo 1%.
La povertà è un problema trasversale, comune a tutti i Paesi. Nessuno escluso. Ma che ognuno cerca affrontare, nel tentativo di migliorare le condizioni dei cittadini meno agiati, come meglio crede. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’amministrazione Obama sembra decisa ad adottare una distribuzione più equa della pressione fiscale.
Il 20 gennaio, nel corso del discorso sullo stato dell’Unione, il presidente statunitense chiederà al Congresso di aumentare le tasse per i contribuenti e le aziende più ricche. Lo scopo: ottenere una copertura finanziaria per la riduzione delle tasse per la classe media e le famiglie più povere. Secondo i piani della Casa Bianca, lo Stato dovrebbe ottenere entrate per 320 miliardi di dollari nel prossimo decennio.
Ma c’è di più. Obama intende aumentare il salario minimo a livello federale, portandolo dagli attuali 7,25 a 10,10 dollari l’ora. Un’iniziativa lodevole, ma che alcuni non condividono: il partito repubblicano è infatti fermamente contrario. Nel frattempo, venti Stati (più il distretto della capitale Washington) hanno deciso di innalzare autonomamente il salario minimo. Gli aumenti, scattati dal 1° gennaio, variano da Stato a Stato: passiamo così dai nove dollari del Massachusetts – che diverranno undici nel 2017 – ai 9,47 di Washington D.C.
Oltreoceano le cose vanno diversamente. L’Italia, ad esempio, è uno dei pochi Paesi dell’Europa (insieme ad Austria, Finlandia, Danimarca, Svezia, Cipro e Norvegia) a non aver ancora introdotto il salario minimo imposto e aggiornato periodicamente dallo Stato: l’ultima a farlo è stata la Germania, dove una paga non può essere inferiore agli 8,50 euro l’ora. Nel nostro Paese, il salario minimo viene definito invece attraverso una negoziazione fra i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro.
Tuttavia quello della paga minima non è l’unico caso in cui l’Italia non ha seguito le indicazioni di Bruxelles e l’esempio dei partner europei. Ad oggi, il nostro Paese è infatti l’unico a non aver introdotto il reddito minimo garantito – da non confondere con il reddito di cittadinanza che verrebbe riconosciuto a chiunque se adottato – come raccomandato dalla Commissione europea in più occasioni, l’ultima delle quali nella risoluzione 2010/2039.
Eppure, una volta introdotti, salario e reddito minimo potrebbero essere (importanti) strumenti per favorire l’inserimento nella società dei cittadini meno abbienti e contrastare una povertà che ha iniziato a diffondersi rapidamente ancor prima della crisi economica. Secondo una stima dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione economica), dalla metà degli anni ‘80 fino al 2008, in Italia la disuguaglianza economica è cresciuta del 33%: il dato più alto fra i Paesi dell’area OCSE, dove la media si ferma al 12%. Nel 2013, rileva l’ISTAT, le persone in povertà relativa erano così il 16,6% della popolazione (10 milioni e 48 mila unità) mentre quelle in povertà assoluta erano il 9,9% (6 milioni e 20 mila).
(articolo pubblicato il 20 gennaio 2015 su Tgcom24)